giovedì 25 ottobre 2007

Rassegna stampa a cura di Giorgio Razeto

Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano
Intervento all'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 24 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri Apostolici, si è soffermato sulla figura di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano.
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Cari fratelli e sorelle,il santo Vescovo Ambrogio - del quale vi parlerò quest'oggi - morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l'alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. "Noi vedevamo muoversi le sue labbra", attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, "ma non udivamo la sua voce". A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: "Alzati, presto! Ambrogio sta per morire...". Onorato scese in fretta - prosegue Paolino - "e porse al santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli" (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita.
Ambrogio non era vecchio quando morì. Non aveva neppure sessant'anni, essendo nato intorno al 340 a Treviri, dove il padre era prefetto delle Gallie. La famiglia era cristiana. Alla morte del padre, la mamma lo condusse a Roma quando era ancora ragazzo, e lo preparò alla carriera civile, assicurandogli una solida istruzione retorica e giuridica. Verso il 370 fu inviato a governare le province dell'Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Proprio lì ferveva la lotta tra ortodossi e ariani, soprattutto dopo la morte del Vescovo ariano Aussenzio. Ambrogio intervenne a pacificare gli animi delle due fazioni avverse, e la sua autorità fu tale che egli, pur semplice catecumeno, venne acclamato dal popolo Vescovo di Milano.
Fino a quel momento Ambrogio era il più alto magistrato dell'Impero nell'Italia settentrionale. Culturalmente molto preparato, ma altrettanto sfornito nell'approccio alle Scritture, il nuovo Vescovo si mise a studiarle alacremente. Imparò a conoscere e a commentare la Bibbia dalle opere di Origene, il maestro indiscusso della "scuola alessandrina". In questo modo Ambrogio trasferì nell'ambiente latino la meditazione delle Scritture avviata da Origene, iniziando in Occidente la pratica della lectio divina. Il metodo della lectio giunse a guidare tutta la predicazione e gli scritti di Ambrogio, che scaturiscono precisamente dall’ascolto orante della Parola di Dio. Un celebre esordio di una catechesi ambrosiana mostra egregiamente come il santo Vescovo applicava l’Antico Testamento alla vita cristiana: "Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, abbiamo trattato ogni giorno di morale - dice il Vescovo di Milano ai suoi catecumeni e ai neofiti - affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell'obbedienza ai precetti divini" (I misteri 1,1). In altre parole, i neofiti e i catecumeni, a giudizio del Vescovo, dopo aver imparato l’arte del vivere bene, potevano ormai considerarsi preparati ai grandi misteri di Cristo. Così la predicazione di Ambrogio - che rappresenta il nucleo portante della sua ingente opera letteraria - parte dalla lettura dei Libri sacri ("i Patriarchi", cioè i Libri storici, e "i Proverbi", vale a dire i Libri sapienziali), per vivere in conformità alla divina Rivelazione.
E' evidente che la testimonianza personale del predicatore e il livello di esemplarità della comunità cristiana condizionano l'efficacia della predicazione. Da questo punto di vista è significativo un passaggio delle Confessioni di sant'Agostino. Egli era venuto a Milano come professore di retorica; era scettico, non cristiano. Stava cercando, ma non era in grado di trovare realmente la verità cristiana. A muovere il cuore del giovane retore africano, scettico e disperato, e a spingerlo alla conversione definitivamente, non furono anzitutto le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) di Ambrogio. Fu piuttosto la testimonianza del Vescovo e della sua Chiesa milanese, che pregava e cantava, compatta come un solo corpo. Una Chiesa capace di resistere alle prepotenze dell'imperatore e di sua madre, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un edificio di culto per le cerimonie degli ariani. Nell’edificio che doveva essere requisito - racconta Agostino - "il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo". Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualche cosa andava muovendosi nell'intimo di Agostino, il quale prosegue: "Anche noi, pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell'eccitazione di tutto il popolo" (Confessioni 9,7).
Dalla vita e dall'esempio del Vescovo Ambrogio, Agostino imparò a credere e a predicare. Possiamo riferirci a un celebre sermone dell'Africano, che meritò di essere citato parecchi secoli dopo nella Costituzione conciliare Dei Verbum: "E' necessario - ammonisce infatti la Dei Verbum al n. 25 - che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, "affinché non diventi - ed è qui la citazione agostiniana - vano predicatore della Parola all'esterno colui che non l'ascolta di dentro"". Aveva imparato proprio da Ambrogio questo "ascoltare di dentro", questa assiduità nella lettura della Sacra Scrittura in atteggiamento orante, così da accogliere realmente nel proprio cuore ed assimilare la Parola di Dio.
Cari fratelli e sorelle, vorrei proporvi ancora una sorta di "icona patristica", che, interpretata alla luce di quello che abbiamo detto, rappresenta efficacemente "il cuore" della dottrina ambrosiana. Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio, un incontro certamente di grande importanza nella storia della Chiesa. Egli scrive testualmente che, quando si recava dal Vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava. C’era sempre una lunga fila che aspettava di parlare con Ambrogio per trovare da lui consolazione e speranza. Quando Ambrogio non era con loro, con la gente (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il cibo necessario, o alimentava lo spirito con le letture. Qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi (cfr Confess. 6,3).
Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva. Che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità singolare di lettura e di familiarità con le Scritture. Ebbene, in quella "lettura a fior di labbra", dove il cuore si impegna a raggiungere l'intelligenza della Parola di Dio - ecco "l'icona" di cui andiamo parlando -, si può intravedere il metodo della catechesi ambrosiana: è la Scrittura stessa, intimamente assimilata, a suggerire i contenuti da annunciare per condurre alla conversione dei cuori.
Così, stando al magistero di Ambrogio e di Agostino, la catechesi è inseparabile dalla testimonianza di vita. Può servire anche per il catechista ciò che ho scritto nella Introduzione al cristianesimo, a proposito del teologo. Chi educa alla fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte "per mestiere". Piuttosto - per usare un'immagine cara a Origene, scrittore particolarmente apprezzato da Ambrogio - egli deve essere come il discepolo amato, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, e lì ha appreso il modo di pensare, di parlare, di agire. Alla fine di tutto, il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.
Come l'apostolo Giovanni, il Vescovo Ambrogio - che mai si stancava di ripetere: "Omnia Christus est nobis!; Cristo è tutto per noi!" - rimane un autentico testimone del Signore. Con le sue stesse parole, piene d'amore per Gesù, concludiamo così la nostra catechesi: "Omnia Christus est nobis! Se vuoi curare una ferita, egli è il medico; se sei riarso dalla febbre, egli è la fonte; se sei oppresso dall'iniquità, egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita; se desideri il cielo, egli è la via; se sei nelle tenebre, egli è la luce... Gustate e vedete come è buono il Signore: beato è l'uomo che spera in lui!" (De virginitate 16,99). Speriamo anche noi in Cristo. Saremo così beati e vivremo nella pace.[© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana]


L’uomo è soggetto, e non oggetto, di scienza e tecnologia, afferma il Cardinal Ruini
Inaugurando l’anno accademico 2007/08 dell’Università Pontificia Salesiana

ROMA, mercoledì, 24 ottobre 2007 (ZENIT.org).- L’uomo è soggetto, e non oggetto, della conoscenza scientifico-tecnologica, ha affermato il 16 ottobre il Cardinale Camillo Ruini, Vicario Generale del Papa per la diocesi di Roma.In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2007/2008 dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, il porporato ha ricordato che è necessario evitare "l’‘a-umanismo" derivante dal considerare l’uomo solo oggetto del progresso e non suo fautore.Nella sua prolusione, sul tema "Università, cultura ed educazione", il Cardinal Ruini ha spiegato che l’educazione della persona è "una questione fondamentale e decisiva", e occorre quindi "preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare". Analizzando le motivazioni dell’"emergenza educativa" di cui ha parlato il Papa l’11 giugno in occasione del Convegno annuale della Diocesi di Roma, il Cardinale ha affermato che l’educazione e la formazione della persona "hanno anzitutto e necessariamente a che fare con la persona stessa, ossia con l’uomo, inteso nel senso di essere umano"."Quando dunque non è chiaro, o cambia profondamente il senso che attribuiamo alla parola ‘uomo’, e ancor più radicalmente quando, come è oggi il caso, entra in gioco la possibilità, almeno ipotetica, di un cambiamento, per nostra iniziativa, dell’essere dell’uomo, non possono non entrare a loro volta in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i parametri educativi", ha denunciato.Oggi, ha riconosciuto il porporato, "siamo pressoché obbligati a riconoscere che ci ritroviamo in una tale situazione", alla cui origine c’è "la razionalità scientifico-tecnologica".Le capacità scientifico-tecnologiche acquisite dall’uomo "sono giunte ormai ad una fase del loro sviluppo che parrebbe consentire un potenziamento radicale della nostra specie, il suo miglioramento e anche il suo superamento, in un processo evolutivo il cui propulsore non risiederebbe più nella natura ma nell’intelligenza umana, più precisamente nell’intelligenza scientifico-tecnologica, e i cui ritmi di sviluppo sarebbero per conseguenza non quelli lentissimi della natura ma quelli rapidissimi della tecnologia", ha osservato. Questa "fase nuova della nostra esistenza nel mondo", ha proseguito il porporato, "va sinceramente favorita e promossa, perché rappresenta uno sviluppo di quelle potenzialità che sono intrinseche all’uomo, creato a immagine di Dio". In questa situazione, è tuttavia necessario "liberarsi da una visione deterministica degli sviluppi che ci attendono: in quanto opera dell’uomo, e non astrattamente delle tecnologie, essi possono e devono essere orientati in modo che vadano a favore, e non a detrimento, dell’uomo stesso".L’approccio scientifico-tecnologico all’uomo, ha avvertito, "in virtù del suo metodo e dinamismo intrinseco, tende a considerare l’uomo come un ‘oggetto’, come tale conoscibile e ‘misurabile’ attraverso le forme dell’indagine sperimentale". "Tutto ciò è certamente lecito", ha commentato, ma quando, "dando spazio a un tipo più o meno nuovo di scientismo, si considera quella scientifico-tecnologica come l’unica forma di conoscenza del nostro essere che sia davvero valida e universalmente proponibile, negando o comunque dimenticando che l’uomo è anzitutto e irriducibilmente ‘soggetto’", "l’‘a-umanismo’ diventa non più soltanto metodologico ma contenutistico, e talvolta programmatico".Concludendo il suo intervento, il Cardinale ha esortato quanti lavorano all’Università Salesiana ad "approfondire sempre di nuovo la vostra riflessione su Dio e su l’uomo".Nel rapido mutare dei tempi, infatti, questi rimangono "i due poli decisivi non solo del discorso teologico ma di una cultura e di un’educazione che cerchino di essere all’altezza del loro compito".


La strada in salita del "partito abortista" globale
Avvenire, 25.10.2007
di Andrea Galli
Londra. L’unico 'noooo!' che parte corale e spontaneo dai convegnisti stipati in platea, l’unica contestazione a muso duro tocca a Stephanie Schlitt, responsabile della sezione diritti riproduttivi della segreteria internazionale di Amnesty International, colei che ha seguito la consultazione interna e poi l’outing abortista dell’associazione. Dopo una carrellata di mezz’ora per illustrare i nuovi orizzonti di Amnesty a sostegno di un accesso all’aborto 'libero' e 'sicuro' nei Paesi poveri, introducendo l’ennesima digressione, a ore 13.30 già scoccate, la platea reclama prepotentemente un altro tipo di accesso: quello al buffet. La giovane attivista britannica, ammutolita, ne prende atto. Ma è una nota di dissenso (l’unica in due giorni) che dura un attimo.L’atmosfera si riprende grazie allo Chardonnay Sermillon australiano e all’ottimo pudding servito dai camerieri. Delegate dello Zambia e femministe indiane formano un capannello di fianco al banchetto dedicato a sterilizzazione e vasectomia. Mentre una ginecologa vietnamita si rilassa sfogliando il nuovo catalogo della Durbin Clinic Sales, distributrice di strumenti clinici per aborto, con forcipi monouso di 24 cm e forbici uterine a poco più di 3 sterline. E tutto torna a filare liscio.Apertasi martedì e chiusasi ieri a Londra, nel prestigioso Queen Elizabeth II Conference Centre, di fianco alla Westminster Abbey, la "Global Safe Abortion Conference 2007" (Conferenza globale sull’aborto sicuro) è stata alla fine, per gli organizzatori, un buon successo. Uno dei maggiori raduni di associazioni e Ong abortiste degli ultimi 15 anni, che ha visto presenti tutti i big del settore. A partire da Marie Stopes International, promotrice dell’evento, attiva in 38 Paesi in partnership con organizzazioni locali e che vanta di aver avuto 4,8 milioni di clienti nel solo 2005; sino all’International Planned Parenthood Federation, la più nota e forse ramificata multinazionale di servizi attinenti ad aborto e contraccezione; all’Ipas, ente americano particolarmente impegnato in questi anni nella promozione della isterosuzione manuale, pratica abortiva condotta con un aspiratore, il manual vacuum aspirator, da usarsi in situazioni di emergenza o dove mancano attrezzature sanitarie adeguate; fino ad Abortion Rights, il cui nome è già un biglietto da visita, e molti altri. Una parata di potenti e danarose lobby (Ippf dichiara di aver ricevuto, nel solo 2006, 107,4 milioni di dollari da governi, fondazioni e privati, con un incremento del 34% rispetto al 2001) le quali hanno chiamato a raccolta 500 fra operatori e delegati delle stesse organizzazioni, in larga parte dai Paesi africani, ma con rappresentanze un po’ da tutto il mondo.
Due gli scopi ufficiali dell’incontro, uno globale l’altro locale: sollecitare i Paesi in via di sviluppo a fare di più per frenare la mortalità femminile a causa di aborti illegali, ovvero a essere più ospitali e generosi nei confronti di Ippf e soci, e celebrare il 40esimo anniversario della legalizzazione dell’aborto nel Regno Unito, chiedendo una modifica della legge – che viene discussa in questi giorni in Parlamento – in un senso ultra­aperturista: cancellazione di qualsiasi 'nulla osta' di medici o di terzi per abortire, licenza di operare anche per infermieri e personale specializzato, mantenimento del limite degli aborti tardivi a 24 settimane, senza scendere a 22 come richiesto da più parti.
Tuttavia, il problema che ha dato tono e colore all’evento è sembrato un altro, cioè quello richiamato fugacemente nel comunicato stampa della giornata inaugurale: l’aborto diventato – o meglio, tornato a essere – una divisive issue, un tema dibattuto, in Europa come in Canada, in Usa come in Gran Bretagna.Insomma in Occidente. In altre parole, ciò che una ventina di anni fa sembrava scontato e intoccabile, oggi viene rimesso in discussione. E non in qualche nazione subtropicale e arretrata.È stato il britannico Guardian, il quotidiano liberal di una delle società più secolarizzate del globo, a titolare ieri in prima pagina: "Troppi aborti: Lord Steel, lo sponsor della legge del 1967, richiama a una maggiore responsabilità sessuale", e di seguito l’articolo in cui si dava conto della diffusa preoccupazione per il numero di aborti registrato l’anno scorso in Inghilterra e Galles (200 mila).
Così com’è stata India Knight, editorialista del Sunday Times e non propriamente un’attivista pro-life, a firmare due domeniche fa un fondo al vetriolo contro la horror pill, intitolata la "La brutale verità dell’aborto fai da te". E se l’Independent domenica scorsa faceva una cronaca amarissima della vicenda di Helene, rivoltasi a una clinica londinese di Marie Stopes per un aborto, il giorno dopo il Daily Telegraph dedicava una pagina all’alto tasso di aborti di bambini con anomalie fisiche minime.Cecile Wijsen, di Rutgers Nisso Groep, Ong per i diritti riproduttivi e la salute della donna con sede a Utrecht, in un seminario dedicato alle tendenze dell’aborto in Europa ha fatto notare come anche in Olanda il tema sia tornato sui giornali, e sia rinato un dibattito impensabile fino a pochi anni fa. Insomma, sembra tirare un’aria meno simpatica per il "partito abortista" globale, o almeno più problematica che in passato.
Così la denuncia del Vaticano, ritenuto responsabile morale sia delle morti per aborti illegali un po’ in tutto il mondo sia dell’alto numero di aborti legali in un Paese come l’Inghilterra (questo – dicono – per il fatto che non ammette la liceità dei profilattici, i quali permetterebbero di ridurre il ricorso alla sala operatoria), è stato l’altro leitmotiv della due giorni londinese. Alla Chiesa cattolica è stato dedicato l’incontro conclusivo della prima giornata (con Jon O’Brien, presidente di "Catholic for a free choice", Arnoldo Torunò, ginecologo del Nicaragua, e Wanda Nowicka, militante pro-aborto polacca), ma in una sorta di rifugio nelle sicurezze del passato, agitando i 'nemici' di sempre. Per dirne una: "Se facessimo fuori la Chiesa – ha esordito dalla platea un partecipante del Ghana – faremmo un enorme passo in avanti". Applausi generali. Braccia alzate in segno di somma approvazione (con disappunto si presume dei genitori, visto il nome) da parte di John Bosco Bassomingera, responsabile per le relazioni esterne di Marie Stopes in Tanzania. Poi però tocca a Daniela Draghici, pasionaria abortista rumena, collaboratrice di Ipas, ricordare una realtà più prosaica: "Sono i demografi, più che la Chiesa, quelli che oggi ci danno contro". E con qualche ragione, se la Romania ha uno dei più bassi tassi di natalità del mondo e da 15 anni, ininterrottamente, il numero dei decessi è superiore a quello delle nascite.

Quando il potere vuole disporre dell’uomo

Paola Ricci Sindoni
Avvenire, 25.10.2007
Conviene riprendere un interessante nodo teorico presentato sulle pagine di Avvenire (penso alla riflessione di Stefano Semplici del 18 ottobre) e anche rivolto all’attenta platea della recente Settimana sociale di Pisa, quando Francesco D’Agostino, nella sessione dedicata alla biopolitica, ha rilanciato alcuni interrogativi allarmanti: che relazione è venuta a instaurarsi nella modernità tra bioetica e biopolitica?
Fino a che punto l’autonomia della vita custodita dalla sfera etica è stata insidiata e persino soppiantata dal potere politico? Non siamo già di fronte alla scomparsa della priorità del vivente in nome di una sempre più aggressiva presa in carico della vita da parte della politica?
Le domande non sono di poco conto, né attengono alla sfera teoretica del problema, quanto alla sua dirompente ricaduta sul piano della prassi politica e sociale, ben disposta –come da sempre avviene all’interno di ogni fenomenologia del potere – a destrutturare il linguaggio ordinario, alterando la rappresentazione del bios tramite una sintassi neutrale e rassicurante.
Il nascituro, per fare un esempio, diventa un generico "prodotto del concepimento", la fine eutanasica della vita umana diventa "interruzione volontaria della sopravvivenza" (come si titola un disegno di legge depositato nel nostro Parlamento), quasi che – qui sta la questione – la cultura (leggi: la politica) avesse finito per inghiottire la natura attraverso un paradigma monista (la biopolitica) in grado di generare, secondo procedure autonome, le determinazioni della vita stessa.
Non è la demonizzazione della politica che si richiede ma lo strapotere dei suoi paradigmi, volti non tanto a ricercare gli accordi tra diverse concezioni bioetiche al fine di produrre leggi e pratiche condivise quanto a immettere la vita stessa nella disponibilità del potere, autorizzato così a dichiarare ciò che è vita e ciò che non lo è.
Questa prospettiva – si noti bene – va oltre l’ormai logora contrapposizione tra cattolici e laici, tra 'sacralità' della vita e 'qualità' della stessa, perché la questione oggi in gioco non può più essere affrontata in nome delle differenti qualificazioni, quanto della sua irriducibile priorità come bene personale, che nessuna invadenza pubblica può dominare.Insomma, prima 'c’è' la vita, poi ci sono le organizzazioni della vita, come Aristotele aveva già indicato. O, che è lo stesso, prima c’è la natura, poi la cultura, che certo interagiscono e si intrecciano dentro le pratiche sociali e politiche, ma mai debbono sostituirsi una con l’altra.
E’ questo, ad esempio, lo scenario che sta sullo sfondo delle strategie culturali dominanti in questi ultimi anni intorno al tema delle Gender Theories. Un tempo considerato il terreno di coltura del femminismo, questa pratica biopolitica, espressa in numerosi documenti dell’Onu e della Ue, si è da qualche tempo orientata a trasformare la natura e i comportamenti sessuali, dove si punta non più a promuovere la 'naturale' parità uomo/donna (sorretta dalla convinzione dell’uguaglianza/differenza dei due sessi), ma a inserire e promuovere modelli culturali in cui presentare il concetto di identicità dei gusti e delle inclinazioni fra maschi e femmine, posto al servizio di una ridefinizione 'neutra' (non sessualmente differenziata) della natura umana.La differenza uomo-donna, lungi dall’essere un 'dato naturale' – così si dice – assume un significato storico e socio-culturale: mentre il 'sesso' indica una immutabilità costante nel tempo e nello spazio, il 'genere' è l’insieme di quelle caratteristiche, di quei comportamenti culturali sorti come esigenza della vita sociale, sempre più esposta alla fluidità e al cambiamento della propria identità, a cui deve partecipare l’avventura del genere, cifra emblematica dell’autodeterminazione individuale, a prescindere dal dato naturale della propria sessualità. Le recenti leggi regionali della Toscana e dell’Emilia Romagna in tema di libertà di scelta nell’orientamento sessuale sono la prova esplicita di questo nuovo paradigma biopolitico, capace di prospettare scenari antropologici del tutto inediti.
Un primo passo per decostruire queste pratiche biopolitiche può essere quello di riguadagnare l’indipendenza della sfera dell’etica, custode del darsi originario della 'nuda vita', prima che le manipolazioni ( scientifiche e politiche) ne rivendichino l’appartenenza.
Viene qui in mente una scena narrativa tratta dal primo libro dei Re (1Re 3,16­28), quando il re Salomone esprime la sua decisione giuridica di fronte a un 'caso' controverso, legato alla contesa appartenenza di un bambino da parte di due madri. Che sembrano incarnare, l’una, la figura della biopolitica nella pretesa di rispondere al paradigma giuridico che intende applicare la norma di dividere il bambino in due parti, escludendolo così dalla vita; e, l’altra, la figura dell’etica, capace di sospendere il diritto a riprendersi il figlio, pur di restituire al bambino la legittimità previa di continuare a vivere. Un altro modo per dire, forse paradossalmente, che la bioetica ha bisogno innanzitutto di etica e solo in seguito di una corretta legittimazione politica.

Stato vegetativo: alcuni "risvegli", poche certezze
Avvenire, 25.10.2007
di Augusto Cinelli
Da giorni il suo nome, associato a quello del reparto che dirige, è su molti media nazionali. Tanto che parlargli è diventato una piccola impresa, con il suo cellulare che squilla a ripetizione e giornalisti di carta stampata e tv che lo cercano, come se poi non avesse niente da fare con i suoi pazienti. È dunque una vera fortuna riuscire a stare qualche minuto con il dottor Marco Sarà, primario del reparto di Riabilitazione in Assistenza intensiva della clinica San Raffaele di Cassino.
Genovese di origine, da qualche anno nella cittadina laziale, il primario è balzato alla ribalta per una ricerca applicata con la sua équipe su alcuni pazienti in stato vegetativo: in tre casi si è registrato un sostanziale miglioramento, facendo parlare di episodi di cosiddetto 'risveglio' ("ma non è corretto – precisa –, è più esatto dire che si tratta di persone non coscienti").
Lui stesso tiene a evitare il sensazionalismo e a circoscrivere gli interessanti risultati del suo lavoro a casi singoli, soggetti a evoluzione: per uno dei tre dopo una prima fase di recupero si è verificato un ritorno alla condizione precedente.
Ma prima di entrare nel merito – che equivale anche a operare una inevitabile incursione sul caso di Eluana Englaro –, con grande disponibilità il dottore ci mostra il reparto, una struttura nuova e accogliente dove vengono curati con dedizione venti pazienti con grande eterogeneità di diagnosi.
Difficile mettere nero su bianco quanto passa per la testa e nei sentimenti attraversando la corsia e incontrando da vicino la condizione di persone non consapevoli di sé e degli altri eppure davvero vive, e in quanto tali prese in carico da un personale sanitario specializzato che lavora ogni attimo a stretto contatto con la sofferenza. Qui arrivano persone con un grave danno cerebrale in conseguenza di trauma cranico, ictus, emorragia cerebrale, oppure di anossie per arresto cardiaco... "Si tratta di malati con gli occhi aperti, con una evidente assenza di coscienza – spiega il primario –. Li ricoveriamo dopo la rianimazione ancora in fase di stabilizzazione. Quindi studiamo accuratamente ogni caso e cerchiamo di definire nella maniera più precisa possibile il danno che hanno subìto. Passati alcuni giorni, esponiamo ai familiari la situazione e il percorso possibile".
Terminata la visita al reparto – un’esperienza che non può lasciare indifferenti –, Sarà può illustrarci cosa è successo con il nuovo approccio terapeutico sperimentato: "Abbiamo fatto riferimento a una nostra teoria, quella secondo cui nello stato vegetativo si ipotizza che il cervello venga distratto da troppe informazioni che, arrivando da diversi livelli, interagiscono tra loro.
Riducendo l’arrivo di queste informazioni, si potrebbe lasciare più spazio alla coscienza. Partendo da questa ipotesi, abbiamo proceduto a un intervento farmacologico opportuno in caso di spasticità.
In pratica pensiamo di aver ridotto la quantità di traffico informativo in ingresso, consentendo al cervello di concentrarsi sull’ambiente esterno piuttosto che sulle sensazioni provenienti dal resto del corpo". Nel caso dell’ultimo 'risveglio' – un paziente di 43 anni vittima di emorragia cerebrale – dopo una settimana si sono evidenziate risposte motorie della lingua, degli occhi, delle corde vocali. Nei tre mesi successivi ha ricominciato a parlare e scrivere. Che significa?
"Intanto che casi di recupero, anche tardivo, esistono, e non siamo certo noi a scoprirlo, come è documentato nella letteratura scientifica. In realtà – prosegue – risultati come i nostri, che fanno parte di una ricerca ancora allo stadio embrionale, confermano come la questione dello stato di coscienza sia molto controversa e che non siamo in grado di definire con precisione che cosa sia la coscienza stessa. A differenza della morte cerebrale, per cui la definizione è univoca, nel caso dello stato vegetativo, in cui viene ad essere investita la parte più recente del cervello, è la coscienza a non essere 'sveglia'.
Su questo punto i dubbi esistenti sono ancora troppi". E allora?
"Lo dico da non credente: in una situazione di dubbio mi schiero con i più prudenti e, a questo proposito, riconosco che la posizione dei cattolici è la più cauta. Di sicuro non si può accettare che decisioni mediche su malati di questo genere vengano dettate dalla praticità e da meccanismi di sostenibilità economica rispetto a certe malattie".
Sul 'caso Eluana' la posizione del dottor Sarà è più sfumata: "In gioco c’è la dignità della persona, una dimensione che a mio avviso appartiene alla soggettività". Proprio non se la sente però di riconoscere alla scienza la possibilità di dare tutte le risposte: "Mi ritengo un agnostico nei confronti della scienza, che va applicata come metodo di lavoro ma non può essere oggetto di fede. Se c’è una cosa più forte anche della scienza questa è la speranza, la forza più consistente che la nostra natura conosca". E su casi come quelli di Terry Schiavo e Piergiorgio Welby? Il dottor Sarà non usa mezzi termini: "Due decisioni che ritengo inaccettabili: se uccidi un animale al modo di Terry Schiavo finisci in galera, non si può lasciare che una persona muoia di fame e sete.
Nel caso Welby, poi, è riconoscibilissimo lo stile delle battaglie radicali: avendo violato la dimensione della privatezza, mi ha sconcertato".
Una domanda a questo punto è d’obbligo: se i parenti di un malato che arriva nel suo reparto gli chiedessero di non applicare la cure, cosa farebbe?
"Di certo mi opporrei, perché è quanto ho il dovere di fare: stiamo parlando di persone che sono già sveglie ma non coscienti. Lo ripeto, non è così invece per la morte cerebrale: se si fosse avuta notizia anche di un solo caso di risveglio da morte cerebrale nel mondo non si sarebbero fatti più trapianti".
Adesso è l’ora di tornare al lavoro di primario, pressato da gentili ma urgenti sollecitazioni dei suoi collaboratori. Lasciando questo reparto un po’ speciale, tra le parole del dottore alcune in particolare restano impresse: "La speranza è la forza più consistente della natura umana. E non se ne deve fare la vittima né di mercimonio né di posizioni supponenti".


Se l’etica è ridotta al Dna - dibattiti
La provocazione dello psicologo Usa Hauser: le norme morali sono figlie dell’evoluzione.Ma questa ambiziosa 'grammatica universale' non spiega il corso storico dell’etica
Avvenire, 25.10.2007
DI ANDREA LAVAZZA
D a dove vengono le norme morali? Da Dio e/o dalla ragione, hanno sem­pre risposto gli uomini. Oggi, alcuni studiosi avanzano una terza possibilità: dal­l’evoluzione darwiniana e, in definitiva, dal­la biologia. Ipotesi controversa che, tra l’al­tro, viene declinata secondo modelli alter­nativi. Uno dei più articolati e discussi è quel­lo dello psicologo di Harvard Marc Hauser. La presentazione delle sue ricerche arriva o­ra in traduzione italiana ( Menti morali. Le o­rigini naturali del bene e del male, il Saggia­tore, pagine 505, euro 24,00). Basandosi su esperimenti, test con migliaia di volontari, e­sami di pazienti neurologici e fatti di crona­ca, l’autore in sintesi dice che il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, evolu­tosi nell’uomo per milioni di anni, precede i nostri giudizi coscienti e le emozioni colle­gate, dotandoci di una fonte nascosta di in­tuizioni etiche universalmente condivise, tanto da poter parlare di una facoltà morale innata, patrimonio di tutti gli uomini.
Secondo Hauser, "i nostri istinti morali so­no immuni dai comandi espliciti traman­datici da religioni e autorità. Qualche volta le nostre in­tuizioni etiche convergono con quelle espresse dalla cultura, a vol­te divergono". L’i­dea di una gram­matica morale uni­versale trae diretta ispirazione dalla grammatica gene­rativa che il lingui­sta Noam Chom­sky introdusse ne­gli anni Cinquanta: nello stesso modo in cui siamo dotati di una facoltà del linguaggio, che consiste in una scatola universale degli attrezzi per costruire i linguaggi possibili, co­sì siamo dotati di una facoltà morale costi­tuita da una scatola universale degli attrez­zi per costruire i sistemi morali possibili.
Per grammatica, Hauser intende un insieme di principi o di operazioni mentali necessa­ri a produrre giudizi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ogni parlante di una lingua è capace di valutare se un’espressione è grammaticalmente adeguata, ma spesso non è consapevole dei motivi per cui emet­te quel giudizio. In analogia con la teoria chomskiana, gli elementi fondamentali del­la moralità che operano a livello inconscio non impongono i contenuti specifici dei no­stri giudizi, né la decisione di aiutare o dan­neggiare il nostro prossimo in una data si­tuazione. Essi limitano però il ventaglio del­le scelte, come l’idioma cui siamo esposti da bambini ci permette di far scattare alcuni 'interruttori' linguistici (ad esempio il tipo di costruzione della frase, in giapponese di­verso dall’italiano), già pronti ad assumere alcune posizioni. Anche gli argomenti a fa­vore dell’innatismo morale coincidono con quelli che sorreggono l’innatismo linguisti­co: l’universalità dei contenuti, la povertà dello stimolo (i dati cui sono esposti i bam­bini sono insufficienti a spiegare quello che sanno se dovessero impararlo da zero), il per­corso di sviluppo degli individui simile nel­le diverse culture.
Ma come si sarebbe evoluta la grammatica universale? Hauser dà una doppia risposta. È possibile che (quello che oggi chiamiamo) l’istinto morale sia stato in origine selezio­nato a motivo delle sue conseguenze sul­l’efficienza della specie nel mantenere le nor­me sociali, alcune delle quali sarebbero com­parse già negli animali superiori. In secon­do luogo, non va escluso che alcune delle componenti che stanno alla base dell’istin­to morale (come la capacità di distinguere a­zioni intenzionali e azioni accidentali, deci­siva per il concetto di responsabilità) non si siano evolute per ragioni che sono specifiche della moralità (ovvero, per ciò che noi oggi chiamiamo moralità), ma siano state in se­guito 'cooptate' o 'adottate' dalla facoltà morale.
Il fatto che si supponga l’esistenza di una grammatica morale universale non equiva­le comunque al rifiuto della variabilità dei sistemi etici dovuta alla cultura. Ma, come detto, la facoltà morale porrebbe limiti alla gamma di variazioni interculturali possibili e, quindi, anche alla misura in cui religione, diritto e trasmissione intergenerazionale (fa­miglia, scuola) possono modificare i nostri giudizi morali, che sarebbero intuitivi e re­sistenti alle influenze ambientali.
Tre le critiche principali a questa imposta­zione, che pure ha dalla sua una crescente mole di prove sperimentali. Primo, si sotto­valuta la storia. Le norme morali cambiano (e molto) nel tempo: uccidere neonati o te­nere schiavi è stato lecito e accettato, ora ci fa orrore. Secondo, molti filosofi morali ri­tengono che quelle descritte da Hauser sia­no soltanto condizioni che rendono fisica­mente possibile la produzione dei compor­tamenti e degli enunciati morali: sono assai varie e, soprattutto, nessuna è in grado di ren­dere conto del contenuto specificamente morale delle pratiche umane. Terzo, alcuni scienziati cognitivi che non rifiutano la base biologica negano però che esista una gram­matica morale universale, ribaltando l’im­postazione di Hauser e cercando di dimo­strare che non risponde ai criteri della teoria generativa di Chomsky. Ad esempio, speri­mentiamo spesso dilemmi morali tra princi­pi confliggenti, mentre nulla di simile si ha quando decidiamo sulla correttezza di un’e­sperienza linguistica. Di certo, è finita l’era in cui l’etica si studia soltanto a tavolino.


Il filosofo Botturi: "Rimane comunque spazio per la libertà della persona"
intervista DI ANDREA LAVAZZA
Avvenire, 25.10.2007
"Quando si considera solo il determinismo biologico, la realtà morale evapora.
Però la ricerca empirica non esaurisce il discorso: qualcosa resta sempre fuori"
S ebbene la naturalizzazione dell’etica sfidi pesantemente la riflessione tra­dizionale, un esponente della filoso­fia morale neoclassica come Francesco Botturi, ordinario all’Università Cattolica di Milano, non è del tutto ostile a conside­rare il collegamento tra struttura bio-psi­chica e senso etico.
Come valuta le ricerche che puntano a individuare una facoltà morale innata?
"Fatte le debite proporzioni, si potrebbe dire che gli universali morali che si vanno scoprendo oggi sono il corrispettivo di ciò che si definiva legge naturale. E che vi sia un accumulo progressivo di conoscenze, che si manifesta poi in forma inconsape­vole, è un’affermazione che sarebbe stata sottoscritta anche da Aristotele. Quello che adesso si chiarisce sono i meccanismi neurobiologici soggiacenti. San Tommaso diceva che l’uomo conosce come bene ciò verso cui ha spontanea inclinazione. E Hauser pare mo­strarci come accade tutto questo".
Viene quindi ridotto lo spazio del­la riflessione filosofica?
"No. Ecco il punto critico. Una vol­ta raccolta la documentazione empirica, sorge la questione del­l’interpretazione. Il nesso tra evo­luzione biologica e moralità può essere letto in due modi. Il primo è deterministico: dato quel tipo di struttura, consegue che..., e la va­riazione è solo casuale. Il secondo afferma che certe condizioni del vivente sono la premessa alla capacità di giudizio morale – senza di esse non la si potrebbe esercita­re o non la si potrebbe esercitare in certi modi –, ma rimane spazio per il ragiona­mento e per la libertà della persona".
La prospettiva naturalistica però tende a escludere questo ambito...
"Non può farlo senza contraddirsi. Per la scienza, parole come uomo, mondo e Dio, così come bene e male, non hanno senso proprio. Ma esattamente per questo il tentativo di eliminarle va incontro a una contraddizione pragmatica, come direbbe Karl Otto Apel: se non le riconosce, non ne può nemmeno parlare per negarle. Vi sono 2500 anni di riflessione filosofica sulla morale che attribuiscono all’indivi­duo uno spazio di auto-motivazione e di significati totalizzanti, i quali non si la­sciano facilmente ridurre o eliminare da un gioco epistemologico".
Si sostiene che, se l’ipotesi di una facoltà morale innata fosse corroborata, biso­gnerebbe ripensare il ruolo delle agenzie morali che operano nella società. È d’ac­cordo?
"Sono in gioco due visioni antropologiche incompatibili. Quando si considera solo il determinismo biologico-ambientale, è ovvio che la realtà morale come la cono­sciamo evapora. A mio avviso, però, la ri­cerca empirica non è in grado di esaurire il discorso sulla coscienza morale. Qual­cosa resta fuori, ed è ciò di cui parlano al­l’uomo libero coloro che propongono modelli di comportamento individuale e sociale".

La Chiesa tiene alta la bandiera della libertà
Avvenire, 25.10.2007
Con la riforma costituzionale prevista dal governo, il Venezuela – oggi uno "Stato democratico e sociale di diritto e di giustizia" – diventerà uno "Stato socialista". La modifica rischia di limitare "la libertà dei venezuelani, incrementa eccessivamente il potere dello Stato, elimina il decentramento". Il governo "controllerà moltissimi spazi della vita dei cittadini".
È l’analisi dedicata dai vescovi venezuelani alla trasformazione istituzionale proposta dal governo di Hu­go Chávez. Ma la preoccu­pazione che emerge dal do­cumento della Conferenza episcopale – "Chiamati a vi­vere in libertà" – non rispec­chia solo la voce della Chie­sa, come dimostrano le ma­nifestazioni degli studenti. Il testo fa luce sui punti più cri­tici delle riforme. Esistono degli aspetti positivi, come la tanto ambíta previdenza sociale per i lavoratori auto­nomi. Ma aumenterà "la concentrazione dei poteri nelle mani del presidente della Repubblica e ciò favo­rirà l’autoritarismo".
Il Venezuela sembra aver assunto una direzione chiara, che ricorda esempi del passato. "Un modello di Stato socialista, marxista leninista, statalista, è contrario al pensiero del Libertador Simón Bolivar", ricorda la Conferenza episcopale, "ed è contrario alla natura personale dell’essere umano e alla visione cristiana dell’uomo, perché stabilisce il dominio assoluto dello Sta­to sulla persona". L’esperienza di altri Paesi – dall’Unione Sovietica a Cuba – ha dimostrato che questo sistema limita "la libertà personale e l’espressione religiosa ", producendo "una povertà generalizzata". In questo scenario, "chi non partecipa all’ideologia socialista" viene discriminato.
I vescovi chiariscono che ovviamente "all’interno di uno Stato democratico possono esistere partiti socialisti e governi socialisti", come confermano i casi del Cile o del Brasile. Ma c’è una grande differenza con il "pensiero unico" dello "Stato socialista ". Oltre a un’involuzione sul fronte dei diritti umani, il rischio è la "polarizzazione" – la spaccatura – della società.
La Costituzione – ri­badisce l’episcopato – deve essere sostenuta dal maggiore consenso sociale possibile, al di là degli interessi di parte.
Benché il documento sia sta­to presentato come una ri­flessione fraterna sull’attua­le situazione del Paese, la reazione del governo è stata molto dura. "Loro dicono che la riforma è moralmen­te inaccettabile. Ma sono lo­ro che sono moralmente i­naccettabili, ci vergogniamo di questi vescovi", ha attac­cato Chávez. Non è la prima volta: negli ultimi otto anni le tensioni fra l’esecutivo dell’ex paracadutista e la Chiesa venezuelana non so­no mancate. Frizioni e criti­che si sono alternate a mo­menti di disgelo. Ma la Con­ferenza episcopale non ha mai rinunciato alla sua indi­pendenza di giudizio, ana­lizzando in profondità temi spinosi, che possono modi­ficare il volto di un Paese.
A chi ha accusato i vescovi di fare politica ha risposto in un’intervista il cardinale Jor­ge Urosa Sabino: "Non sono portavoce dell’opposizione. Noi siamo pastori della Chiesa e stiamo agendo se­condo la nostra visione pa­storale e l’impegno di pastori del popolo".
Michela Coricelli


Ora di religione, attacco fuori bersaglio Nel mirino di "Repubblica". Ma la nuova bordata va ancora una volta a vuoto
Avvenire, 25.10.2007
DI UMBERTO FOLENA
L’ insegnamento della religio­ne cattolica (Irc) non serve a nulla, se non a rimpin­guare la Chiesa, "un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro". A que­sta tesi sbrigativa e grossolana va piegata la realtà, insinuando che l’I­talia sia un’anomalia in Europa, mentre invece è l’esatto contrario; e con supremo disprezzo degli inse­gnanti di religione e degli oltre nove studenti su dieci che nelle scuole sta­tali seguono le loro lezioni. 'I soldi del vescovo', parte quarta, è com­parsa ieri su Repubblica. Il bersaglio? Probabilmente il Concordato; sicu­ramente la Chiesa e i cattolici tout court e ogni loro forma di presenza sociale - oratori, scuole, ospedali, centri d’ascolto, mense… tutto - la­sciandogli forse le sacrestie, purché ben chiuse.
I programmi ci sono
"Uno strano ibrido di animazione sociale e vaghi concetti etici desti­nati a rimanere nella testa degli studenti forse lo spazio di un mat­tino. Pochi cenni sulla Bibbia, qua­si mai letta, brevi e reticenti rias­sunti di storia della religione".
Questa è l’ora di religione secondo Repubblica. In realtà i programmi ­Osa, obiettivi specifici di apprendi­mento - ci sono, come per ogni di­sciplina. Se un docente li ignora, è un cattivo docente. Ma se un inse­gnante di matematica dovesse in- segnar male, concluderemmo che la matematica è una porcheria?
Repubblica stessa poi si contraddi­ce pesantemente, quando nel tito­lo sentenzia: 'Religione, il dogma in aula'. Quale dogma?
Che cosa dice il Concordato
Repubblica evita di spiegare ai let­tori l’origine dell’attuale Irc: gli Ac­cordi concordatari del 1984, che definiscono in positivo, secondo un’idea inclusiva di laicità, i rap­porti tra Chiesa e Stato, non in concorrenza o in conflitto, ma col­laboranti: "La Repubblica Italiana, riconoscendo il valore della cultu­ra religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad as­sicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di o­gni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della re­sponsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avva­lersi di detto insegnamento". Un testo improntato al buon senso. Il resto sono giochi di parole.
Scrive Repubblica: "L’ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere do­centi di ruolo". Dell’Irc gli studenti, tramite i genitori se minorenni, hanno facoltà di avvalersene o me­no; ma le scuole hanno l’obbligo, non la 'facoltà', di assicurarlo. Vie­ne poi insinuato che a un inse­gnante separato verrebbe ritirata l’idoneità. Sciocchezze: i separati accedono ai sacramenti, e non possono invece insegnare religio­ne? I divorziati risposati no, non insegnano; ma lo sanno e i patti sono chiari fin dall’inizio.
Irc e fantasie
Il giornale di De Benedetti afferma con sicurezza che la Cei chiede (e lo Stato l’accontenta) "che l’ora di religione sia sempre inserita a metà mattinata e mai all’inizio o alla fine delle lezioni, come sareb­be ovvio per un insegnamento fa­coltativo ". Naturalmente non cita la fonte - quando mai la Cei avreb­be chiesto una cosa simile? - per­ché non esiste. Sono fantasie, tra l’altro impossibili da realizzare. Re­pubblica dovrebbe sapere che, di media, un insegnante ha 16 ore al­la settimana; in cinque giorni, neanche il computer della Nasa riuscirebbe ad assegnargli soltanto seconde, terze e quarte ore; e il 73,9 per cento insegna 18 o più o­re. Falso è poi che la Cei boicotti le attività alternative. Tutto il contra­rio, come già emergeva nel conve­gno nazionale del 1995, presente l’allora ministro Berlinguer.
Se il 91,2% vi sembra poco
Repubblica non indica la fonte delle tabelle, anche se leggendo il lungo articolo si intuisce che è la stessa Cei. Ma i numeri vanno spiegati. Ad esempio gli avvalente­si dell’Irc: in totale, nel 2006-07 e­rano il 91,2 per cento, media tra il 94,6 delle primarie e l’84,6 delle secondarie di 2° grado. Sono in ca­lo, gongola il quotidiano di De Be­nedetti. Ma di quanto? Nel 1993­94 erano il 93,5: un’oscillazione minima. E comunque è una stima compiuta monitorando l’83,5 per cento degli alunni (6.554.562 su un totale di 7.681.536). I dati del Nord sono quasi al completo (98,4), assai meno al Sud (77,5), dove la rinuncia all’Irc è molto più bassa (appena l’1,6, contro il 14,1 del nord). Quindi la stima è sicura­mente per difetto.
Insegnanti quasi tutti laici
Gli stipendi agli insegnanti sono "un miliardo alla Chiesa"? Chissà che cosa ne pensa l’85 per cento di insegnanti laici, tra cui il 57 donne e il 28 uomini. Cittadini e lavorato­ri con regolari titoli di studio. I sol­di vanno alle famiglie degli inse­gnanti, non ai vescovi. È l’ennesi­ma contraddizione di chi rimpro­vera alla Chiesa di non adeguarsi all’Europa (coppie di fatto, fecon­dazione artificiale, eccetera). Eb­bene, nel caso dell’Irc (come è spiegato in un altro servizio in questa stessa pagina) siamo ade­guatissimi. Ed è l’ennesimo infor­tunio di chi, per faciloneria o di­sprezzo, riesce a sbagliare il cogno­me di Giovanni Paolo II: si scrive Wojtyla, insigne collega, non Woytjla.



A proposito di omosessualità...
http://www.radiomaria.it/documenti/dwnl.php?id=889

Quella Cometa scuola per la vita
http://www.clonline.org/articoli/ita/gvIlGrnl251007.pdf

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