Troppi aborti in Inghilterra. Il padre della legge si pente
Ogni anno più di 194mila casi. Il mea culpa di Lord Steel: "Non avrei mai immaginato una situazione così grave". In discussione norme più restrittive…
Ride e piange. Anche se ha appena dodici settimane. Anche se è ancora nel pancione della mamma. E sembra quasi che cammini nel suo grembo. L’immagine tridimensionale di un feto prodotta da Stuart Campbell, ex professore di Ostetricia e Ginecologia al King’s College di Londra e pioniere delle più recenti tecnologie di analisi prenatale, da qualche tempo ha riaperto nel Regno Unito il dibattito sull’aborto e costretto all’apertura di un’inchiesta del Comitato per la Scienza e la Tecnologia. Ma da ieri, da quando il padre della legge nazionale sull’interruzione di gravidanza, il liberaldemocratico Lord Steel, ha parlato al Guardian sostenendo che "troppi aborti" vengono praticati nel Paese e che l’abuso è ormai diventato una triste realtà, a Londra è scoppiata la bufera. La responsabile per la Salute pubblica, Dawn Primarolo, che affianca il ministro della Salute Alan Johnson, ha dovuto replicare in Parlamento alla fila di fuoco trasversale di un gruppo di deputati che chiede un abbassamento dei limiti previsti dalla legge attuale, secondo cui è possibile interrompere la gravidanza entro il ventiquattresimo mese. Il ministro ha difeso fermamente il limite in vigore, ma non sembra aver convinto molti parlamentari e soprattutto le associazioni anti-abortiste che da tempo si battono per una revisione della normativa. Sul banco degli imputati finiscono anche autorevoli istituzioni come il Royal College di Ostetricia e Ginecologia (Rcog), accusato dalla parlamentare conservatrice Nadine Dorries di avere "un interesse finanziario riconosciuto per legge" per tenere alto il numero delle interruzioni di gravidanza. A quarant’anni dall’introduzione dell’Abortion Act - sabato ricorre l’anniversario -, anche il Regno Unito scopre insomma che il dibattito sulla vita e sul diritto alla scelta delle donne è più aperto che mai. E i numeri non sono confortanti. Secondo le più recenti statistiche, lo scorso anno in Inghilterra e Galles sono stati praticati oltre 194mila aborti - con un aumento del 4 per cento rispetto al 2005 -, ma la cifra supera quota duecentomila se si includono anche quelli cui sono state sottoposte le donne irlandesi e nordirlandesi (dove la legislazione consente l’interruzione di gravidanza solo in caso di pericolo di vita per la madre e spinge verso la Gran Bretagna molte donne che non vogliono rinunciarvi). I dati del 1967 - anno in cui è entrato in vigore il provvedimento - registravano 55mila aborti. È proprio a causa di queste cifre che si è pronunciato ieri in un’intervista al Guardian il padre di quella legge: "Non avrei mai immaginato che si sarebbe arrivati a questi numeri quando ho condotto la mia campagna. Tutti possono concordare sul fatto che ci siano troppi aborti", ha detto Lord Steel. Nel Paese è emerso un atteggiamento "irresponsabile", secondo il quale molte donne ricorrono all’aborto "se le cose vanno male" e usano l’interruzione di gravidanza come un metodo contraccettivo. Pur non essendo convinto che la legge attuale vada modificata, Lord Steel ha ammesso che anche l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, "aveva qualche ragione" quando diceva che abortire oggi è diventato troppo facile. Sì, perché nel dibattito che da qualche tempo infiamma il Regno Unito, alcuni giorni fa era intervenuto anche il capo della Chiesa anglicana. "Per le donne britanniche l’aborto non rappresenta più l’ultima opzione possibile, ma viene ormai considerato una normale procedura di routine", aveva detto l’arcivescovo, paventando il rischio che la questione non fosse più considerata "come una grande scelta morale". Con lui i cardinali della Chiesa cattolica, che avevano diffuso una lettera aperta destinata all’opinione pubblica inglese per sottolineare la gravità di questa tendenza, pur ammettendo l’improbabilità di un’abolizione della legge.
di Gaia Cesare
Il Giornale n. 252 del 2007-10-25 pagina 11
MEMORIE E DIVAGAZIONI DI UN ITALIANO CARDINALE
Esce in questi giorni in libreria l’autobiografia del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, intitolata Memorie e divagazioni di un italiano cardinale (Cantagalli, pagg. 636, euro 23,90), un volume che si legge tutto d’un fiato e rappresenta un eccezionale spaccato della vita della società italiana e della Chiesa degli ultimi settant’anni…
1) Mafalda in conclave con il cardinale Biffi di Andrea Tornielli
2) E Biffi sgridò Wojtyla "Non pentirti troppo" di Martino Cervo
1) Mafalda in conclave con il cardinale Biffi
Nell’autobiografia dell’arcivescovo di Bologna molti episodi curiosi. E non mancano le critiche a Giovanni XXIII e Wojtyla
di Andrea Tornelli
E il cardinale in conclave citò il fumetto di Mafalda. Esce in questi giorni in libreria l’autobiografia del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, intitolata Memorie e divagazioni di un italiano cardinale (Cantagalli, pagg. 636, euro 23,90), un volume che si legge tutto d’un fiato e rappresenta un eccezionale spaccato della vita della società italiana e della Chiesa degli ultimi settant’anni. Tanti gli aneddoti e i retroscena raccontati da questo "italiano cardinale" che non ha mai nascosto il suo pensiero dietro fumosi giri di parole o stile "ecclesialese" e ha sempre detto pane al pane e vino al vino senza temere di apparire controcorrente o politicamente scorretto.Uno degli episodi più curiosi del libro riguarda l’ultimo conclave, dell’aprile 2005, dal quale è uscito Papa (par di capire anche grazie al contributo di Biffi) il cardinale Ratzinger. In uno degli incontri che quotidianamente i porporati tenevano prima di rinchiudersi a votare, il 15 aprile, Biffi intervenne dicendo: "Vorrei esprimere al futuro Papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche di non preoccuparsi troppo di quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario... In una "striscia" e "fumetto" che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda - continua Biffi - ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: "Ho capito - diceva quella terribile e acuta ragazzina - il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi"". Dirette e per nulla paludate sono anche le critiche che il cardinale rivolge al Concilio Vaticano II e a Giovanni XXIII. Al primo, Biffi rimprovera il silenzio sul comunismo. "Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’accurato indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico asserto. Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla. Il comunismo - continua il cardinale - a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla. Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale "religione di stato"; e il Concilio, che pur si diffondeva sul caso degli atei, non ne parla. Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi "testimoni della fede" (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla". "Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo - conclude - che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII!". Di Papa Giovanni, invece, Biffi critica alcune espressioni divenute poi il Leitmotiv del pontificato. Quella contro i "profeti di sventura". E in proposito il cardinale ricorda che in realtà a proclamare "l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti". Quanto alla necessità di guardare più a ciò che unisce invece che a ciò che divide, Biffi lo definisce un principio assennato per quanto concerne i problemi della quotidianità "ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo" perché "in virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane".Non manca pure un accenno al dissenso che il cardinale ebbe con Giovanni Paolo II in merito al "mea culpa" per gli errori del passato promosso in occasione del Giubileo: "A mio avviso avrebbe scandalizzato i "piccoli"". "Il Papa - continua Biffi - testualmente allora disse: "Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci su". Purtroppo non ci ha pensato abbastanza".Colpiscono infine nel libro anche le cose non dette: l’autore dedica pochissime righe al cardinale Carlo Maria Martini, del quale fu ausiliare per più anni, limitandosi a dire che con la fine dell’episcopato del suo predecessore, il cardinale Colombo, era finita "un’epoca tra le più luminose e feconde della nostra vicenda ecclesiale (milanese, ndr) per il calore e la certezza della fede".
Il Giornale n. 253 del 2007-10-26
2) E Biffi sgridò Wojtyla "Non pentirti troppo"
Il Cardinale si racconta: dagli anni del fascismo ai litigi con Craxi. E una volta bacchettò anche Giovanni Paolo II
di Martino Cervo
Ambrosiano se mai ve n'è stato uno nella storia della Chiesa italiana, Giacomo Biffi ha preso in parola il detto del Santo patrono di Milano: "Per un vescovo non c'è nulla tanto rischioso davanti a Dio e tanto vergognoso davanti agli uomini, quanto non proclamare liberamente il proprio pensiero". Il motto di Ambrogio "Ubi fides, ibi libertas" è la chiave del suo libro "Memorie e digressioni di un italiano Cardinale" (Cantagalli, pp. 640, euro 23,9). BOLOGNA Alla città Biffi ha dedicato la coppia di aggettivi più famosa e duratura: sazia e disperata. Alla città si è dedicato in un servizio costante dopo la richiesta di Giovanni Paolo II. CALABRESI Le pagine più violente del libro sono dirette contro gli intellettuali che hanno sottoscritto l'appello contro il "commissario torturatore". "Tutti con spensierato entusiasmo si lasciarono coinvolgere nell'assurda campagna. Dentro di me non avevo dubbi circa la criminale stupidità di cui le più belle e illuminate menti d'Italia stavano dando prova". Analoga asperità la si ritrova nella critica alla campagna radicale sulla diossina di Seveso, costata 17 aborti inutili tra il '76 e il '77. Più in generale, nutre una radicata diffidenza verso i "pensatori professionisti". FASCISMO E ANTIFASCISMOIl Ventennio lo sorprende a Milano, diventa, come tutti, Balilla, adunate comprese, con i loro inni "imbecilli". Ma "non sono una scocciatura eccessiva, perché spesso le marinavo per andare all'oratorio". La placida vita di via Paolo Frisi scorre senza fasci littori e senza indispettire troppo le autorità. L'antifascismo "convenzionale", invece, merita qualche bacchettata. Anonima, ma non meno sferzante, quella che arriva fino al Nobel: parlando dei repubblichini, Biffi li compatisce come "giovani malinformati e fanatici", tutto sommato da compatire più che da fustigare. Ben peggio "alcuni di loro che, dopo essere stati paracadutisti volontari, impiegati nelle azioni di rastrellamento col compito di catturare i renitenti alla leva e spedirli in Germania, si sono poi distinti per un eccezionale ardore antifascista, come a voler meglio mascherare il passato; e talvolta si sono anzi prodotti in un inspiegabile accanimento antiecclesiale, forse nella convinzione di acquisire così una benemerenza politica in più". ITALIAPensa che l'italianità sia qualcosa di più grande degli ultimi 200 anni di storia, e che per la Chiesa sia giusto averla a cuore. A Pertini che lo sfotte per i presunti dissidi in seno al conclave del '78, Biffi replica: "Si sono messi d'accordo in fretta: ci sono voluti tre giorni per fare il Papa e due mesi per fare il presidente della Repubblica". Con Craxi ha una polemica sui legami tra Stato liberale e fascismo. Il primo fa ironicamente dedicare al cardinale l'inno d'Italia, come vessillo della purezza mazziniana. La replica di Biffi è da manuale: "Sono molto onorato. Spero che l'onorevole Craxi l'abbia cantato tutto, fino alla parte che recita: "I figli d'Italia si chiaman Balilla"". Si incavola a morte con il Grande digiunatore, che assomiglia tanto a Pannella. Non si schiera, anche se l'etichetta di conservatore ormai non gli dà più fastidio. Quando, nel 2000, osa far presente che sarebbe opportuno regolamentare i flussi migratori privilegiando le popolazioni cristiane, viene quasi linciato. WOJTYLANe è immediatamente conquistato, eppure nel '97 avrà modo di bacchettare anche lui, sul perdono dovuto dalla Chiesa per le sue colpe: "Bisogna fare attenzione a non scandalizzare i "piccoli", dice Biffi a colloquio. "Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci", replica il Papa. "Purtroppo non ci ha pensato abbastanza", chiosa il cardinale nel libro.
LIBERO 26 ottobre 2007
Prima dell'ultimo conclave: "Che cosa ho detto al futuro papa"
Il cardinale Giacomo Biffi consegna le sue memorie a un libro. Eccone un'anticipazione: il discorso da lui pronunciato nella riunione a porte chiuse con i cardinali. E poi i suoi giudizi critici su Giovanni XXIII, sul Concilio, sui "mea culpa" di Giovanni Paolo II
di Sandro Magister
ROMA, 26 ottobre 2007 – Alla vigilia dei suoi ottant'anni, il cardinale Giacomo Biffi manda in libreria un grosso volume autobiografico, col titolo: "Memorie e digressioni di un italiano cardinale". Biffi è ricordato soprattutto come arcivescovo di Bologna, dal 1984 al 2003. Ma nel libro egli ripercorre l'intera sua vita, dalla nascita nella Milano operaia a quando divenne sacerdote, poi professore di teologia, parroco, vescovo e infine cardinale. Nel prologo, Biffi riporta queste parole di sant'Ambrogio, grande vescovo della Milano del IV secolo, suo amato "padre e maestro": "Per un vescovo non c'è nulla tanto rischioso davanti a Dio e tanto vergognoso davanti agli uomini, quanto non proclamare liberamente il proprio pensiero". E puntualmente, nelle 640 pagine del volume, il pensiero di Biffi prorompe in piena libertà, pungente, ironico, anticonformista. Non c'è passaggio cruciale della vita della Chiesa che non cada sotto il suo giudizio acuminato e spesso sorprendente. È una sorpresa, ad esempio, che egli indichi "il papa più grande del secolo ventesimo" in Pio XI, che è forse il papa oggi più trascurato e dimenticato. È una sorpresa lo scoprire che, quand'era arcivescovo di Bologna, lui, tanto criticato per aver definito preferibile accogliere in Italia immigrati cristiani rispetto a immigrati musulmani, ospitò per molte notti in una chiesa un folto gruppo di magrebini senza casa, nelle settimane più rigide dell'inverno. Anche i silenzi sono eloquenti. A Joseph Ratzinger il libro dedica solo rari accenni. Ma il lettore capisce da molti indizi che Biffi ha una altissima stima dell'attuale papa. Una stima ricambiata dall'invito fattogli da Benedetto XVI di predicare in Vaticano gli esercizi spirituali della Quaresima del 2007. Viceversa, il quasi totale silenzio sul cardinale Carlo Maria Martini – di cui Biffi fu vescovo ausiliare per quattro anni a Milano – fa trasparire un giudizio inesorabilmente critico. Immediatamente prima di liquidare in poche righe la nomina del celebre gesuita ad arcivescovo di Milano, alla fine del 1979, Biffi mette in chiaro che l'epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento – eredi genuini di sant'Ambrogio e san Carlo Borromeo – si è comunque conclusa col predecessore di Martini, Giovanni Colombo. E da un altro silenzio – quello che nel libro avvolge il successore di Martini, il cardinale Dionigi Tettamanzi – si ricava che neppure con l'attuale vescovo di Milano la stagione dei grandi pastori "ambrosiani" e "borromaici" dia segni di ripresa. Il perché è ben spiegato. Per Biffi un vescovo è grande quando governa la Chiesa "con il calore e la certezza della fede, la concretezza delle iniziative e delle opere, la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi non con cedimenti e mimetismi ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità". Evidentemente, a giudizio di Biffi, né Martini né Tettamanzi corrispondono a questo profilo. Un' altra personalità che Biffi sottopone a critica severa è don Giuseppe Dossetti, in gioventù importante uomo politico – ammirato in quegli anni dallo stesso Biffi – poi sacerdote e monaco, attivissimo consulente del cardinale Giacomo Lercaro nel Concilio Vaticano II e capostitpite della "scuola di Bologna" e dell'interpretazione del Concilio come rottura col passato e nuovo inizio. Biffi scrive che Dossetti mantenne sino all'ultimo "un'ossessione primaria e permanente per la politica, che alterava la sua prospettiva generale". Inoltre gli addebita una "insufficiente fondazione teologica". Dossetti è stato l'uomo che nell'ultimo mezzo secolo ha più influito sugli orientamenti dell'élite intellettuale della Chiesa italiana. Invece, il leader spirituale che a giudizio di Biffi ha intuito con più lucidità la missione e i pericoli della Chiesa nel mondo d'oggi è stato don Divo Barsotti, più volte ricordato con ammirazione nel libro. Le memorie del cardinale Biffi sono una lettura obbligata, per chi voglia osservare la vicenda attuale della Chiesa da una visuale fuori dagli schemi, e nello stesso tempo autorevole. Ma sono anche una lettura avvincente, che afferra fin dalle prime pagine per la brillantezza della scrittura, sempre sobria ed essenziale. Sono il racconto di una vita integralmente dedicata alla Chiesa. Qui di seguito ne sono riportati alcuni brani: su Giovanni XXIII, sul Concilio Vaticano II e le sue ricadute, sui "mea culpa" di Giovanni Paolo II e, infine, sull'ultimo conclave, con il discorso integrale – fino a ieri segreto – rivolto dal cardinale Biffi al futuro papa. Un papa – Benedetto XVI – a quella data ancora da eleggere. Eppure già così somigliante alle attese di questo suo grande elettore.
Giovanni XXIII: papa buono, cattivo maestro (pp.177-179)
Papa Roncalli morì nella solennità di Pentecoste, il 3 giugno 1963. Anch’io lo rimpiangevo, perché avevo un’invincibile simpatia per lui. M’incantavano i suoi gesti "irrituali", ed ero rallegrato dalle sue parole spesso sorprendenti e dalle sue uscite estemporanee. Solo la valutazione di alcune frasi mi lasciava esitante. Ed erano proprio quelle che più facilmente di altre conquistavano gli animi, perché apparivano conformi alle istintive aspirazioni degli uomini. C’era, per esempio, il giudizio di riprovazione sui "profeti di sventura". L’espressione divenne e rimase popolarissima ed è naturale: la gente non ama i guastafeste; preferisce chi promette tempi felici a chi avanza timori e riserve. E anch’io ammiravo qui il coraggio e lo slancio, negli ultimi anni della sua vita, di questo "giovane" successore di Pietro. Ma ricordo che una perplessità mi prese però quasi sùbito. Nella storia della Rivelazione, annunziatori anche di castighi e calamità furono solitamente i veri profeti, quali adesempio Isaia (capitolo 24), Geremia (capitolo 4), Ezechiele (capitoli 4-11). Gesù stesso, a leggere il capitolo 24 del Vangelo di Matteo, andrebbe annoverato tra i "profeti di sventura": le notizie di futuri successi e di prossime gioie non riguardano di norma l’esistenza di quaggiù, bensì la "vita eterna" e il "Regno dei Cieli". A proclamare di solito l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti (si veda il capitolo 13 del Libro di Ezechiele). La frase di Giovanni XXIII si spiega col suo stato d’animo del momento, ma non va assolutizzata. Al contrario, sarà bene ascoltare anche quelli che hanno qualche ragione di mettere all’erta i fratelli, preparandoli alle possibili prove, e coloro che ritengono opportuni gli inviti alla prudenza e alla vigilanza. "Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide". Anche questa sentenza – oggi molto ripetuta e apprezzata, quasi come la regola aurea del "dialogo" – ci viene dall’epoca giovannea e ce ne trasmette l’atmosfera. È un principio comportamentale di evidente assennatezza, che va tenuto presente quando si tratta di semplice convivenza e di decisioni da prendere nella spicciola quotidianità. Ma diventa assurdo e disastroso nelle sue conseguenze, se lo si applica nei grandi temi dell’esistenza e particolarmente nella problematica religiosa. È opportuno, per esempio, che si usi di questo aforisma per salvaguardare i rapporti di buon vicinato in un condominio o la rapida efficienza di un consiglio comunale. Ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo, nel nostro impegno ecumenico, nelle discussioni coi non credenti. In virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane. Il Signore Gesù ha detto di sé, ma è una delle sue parole che siamo inclini a censurare: "Io sono venuto a portare la divisione" (Luca 12,51).
Nelle questioni che contano la regola non può essere che questa: noi dobbiamo guardare soprattutto a ciò che è decisivo, sostanziale, vero, ci divida o non ci divida. "Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante". È un’altra massima che fa parte dell’eredità morale di Giovanni XXIII e ha anch’essa influenzato il cattolicesimo successivo. Il principio è giustissimo e attinge la sua forza dallo stesso insegnamento evangelico: l’errore non può che essere deprecato, odiato, combattuto dai discepoli di colui che è la Verità; mentre l’errante – nella sua inalienabile umanità – è sempre un’immagine viva, pur se incoativa, del Figlio di Dio incarnato; e pertanto va rispettato, amato, aiutato per quel che è possibile. Io però non potevo dimenticare, riflettendo su questa sentenza, che la storica saggezza della Chiesa non ha mai ridotto la condanna dell’errore a una pura e inefficace astrazione. Il popolo cristiano va messo in guardia e difeso da colui che di fatto semina l’errore, senza che per questo si cessi di cercare il suo vero bene e pur senza giudicare la responsabilità soggettiva di nessuno, che è nota solo a Dio. Gesù a questo proposito ha dato ai capi della Chiesa una direttiva precisa: colui che scandalizza col suo comportamento e con la sua dottrina, e non si lascia persuadere né dalle ammonizioni personali, né dalla più solenne riprovazione della ecclesìa, "sia per te come un pagano e un pubblicano" (cfr. Matteo 18,17); prevedendo e prescrivendo così l’istituto della scomunica. Gli inganni del Vaticano II: "aggiornamento" e "pastoralità" (pp. 183-184) Papa Roncalli aveva assegnato al Concilio, come compito e come traguardo, il "rinnovamento interno della Chiesa"; espressione più pertinente del vocabolo "aggiornamento" (esso pure giovanneo), che però ebbe un’immeritata fortuna. Non era certo l’intenzione del sommo pontefice, ma "aggiornamento"includeva l’idea che la "nazione santa" si proponesse di ricercare la sua miglior conformità non al disegno eterno del Padre e alla sua volontà di salvezza (come aveva sempre creduto di dover fare nei suoi tentativi di giusta "riforma"), ma alla "giornata" (alla storia temporale e mondana); e così si dava l’impressione di indulgere alla "cronolatrìa", per usare il termine di biasimo coniato poi da Maritain. Giovanni XXIII vagheggiava un Concilio che ottenesse il rinnovamento della Chiesa non con le condanne, ma con la "medicina della misericordia". Astenendosi dal riprovare gli errori, il Concilio per ciò stesso avrebbe evitato di formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti. E di fatto ci si attenne sempre a questa indicazione di partenza. La ragione sorgiva e sintetica di questi indirizzi era il proposito dichiarato di mirare a un "Concilio pastorale". Tutti, dentro e fuori l’aula vaticana, si mostravano contenti e compiaciuti di tale qualifica. Io però, nel mio angolino periferico, sentivo nascere in me, mio malgrado, qualche difficoltà. Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la "pastoralità" era attribuita al Concilio in atto: si voleva forse dire implicitamente che i precedenti Concili non intendevano essere "pastorali" o non lo erano stati abbastanza? Non aveva rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di Nazaret era Dio e consostanziale al Padre, come si era definito a Nicea? Non aveva rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento? Non aveva rilevanza pastorale presentare in tutto il suo valore e in tutte le sue implicanze il primato di Pietro, come aveva insegnato il Concilio Vaticano I? Si capisce che l’intenzione dichiarata era quella di mettere a tema particolarmente lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci di raggiungere il cuore dell’uomo, senza per questo sminuire la positiva considerazione per il tradizionale magistero della Chiesa. Ma c’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile "misericordia" per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la "misericordia della verità"; misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del "deposito" della fede che va custodito. Qualcuno poteva addirittura incautamente pensare che il riscatto dei figli di Adamo dipendesse più dalle nostre arti di lusinga e di persuasione, che non dalla strategia soteriologica preordinata dal Padre prima di tutti i secoli, tutta incentrata nell’evento pasquale e nel suo annuncio; un annuncio "senza discorsi persuasivi di sapienza umana" (cfr. 1 Corinti 2,4). Nel postconcilio non è stato soltanto un pericolo.
Sul comunismo aveva ragione papa Wojtyla: il Concilio non doveva tacere (pp. 184-186)
Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico silenzio. Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla. Il comunismo, a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla. Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale "religione di stato"; e il Concilio, che pur si diffonde sul caso degli atei, non ne parla. Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi "testimoni della fede" (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla. Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo, che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII! In quegli anni, pur percependo la grande anomalìa di questo riserbo soprattutto da parte di un’assemblea che aveva discorso quasi di tutto, non mi sono affatto scandalizzato. Anzi, devo dire che capivo gli aspetti positivi di quella linea. E non tanto per la possibilità, che così si profilava, di trattare con i regimi comunisti l’auspicabile partecipazione al Concilio dei vescovi da loro controllati, quanto per la previsione che una qualunque presa di posizione, anche la più blanda e la più sorvegliata, avrebbe scatenato un inasprimento della persecuzione, così da appesantire la croce di quei nostri fratelli perseguitati. In fondo, c’era in tutti, almeno inconsciamente, il convincimento che il comunismo fosse un fenomeno tanto consistente da essere ormai irreversibile: con esso bisognava dunque per forza di cose abituarsi a fare i conti, chissà per quanto tempo ancora. A ben guardare questa era in sostanza la giustificazione anche dell’Ostpolitik ("politica di dialogo e di augurabili intese con i Paesi dell’Est") della Santa Sede di Giovanni XXIII e di Paolo VI; tale politica ci pareva sanamente realistica e storicamente opportuna. Chi non ha mai condiviso questa prospettiva è stato Giovanni Paolo II (come ho capito da un colloquio avuto nel 1985). Ha avuto ragione lui. Sui "mea culpa" Giovanni Paolo II si è corretto, ma troppo poco (p. 536) Il 7 luglio 1997 Giovanni Paolo II ebbe l’amabilità di invitarmi a pranzo ed estese l’invito anche al cerimoniere arcivescovile, don Roberto Parisini, che mi accompagnava e rimane perciò come prezioso testimone dell’episodio. A tavola il Santo Padre a un certo punto mi disse: "Ha visto che abbiamo cambiato la frase della 'Tertio millennio adveniente'?". La bozza, che era stata inviata in anticipo ai cardinali, recava questa espressione: "La Chiesa riconosce come propri i peccati dei suoi figli"; espressione che – avevo fatto presente con rispettosa franchezza – era improponibile. Nel testo definitivo il ragionamento appare mutato così: "La Chiesa riconosce sempre come propri i suoi figli peccatori". Il papa in quel momento ci teneva a ricordarmelo, sapendo che mi avrebbe dato piacere.
Ho risposto dicendomi molto grato e manifestando la mia piena soddisfazione sotto il profilo teologico. Mi sono però sentito anche di aggiungere una riserva di indole pastorale: l’iniziativa inedita di chiedere perdono per gli errori e le incoerenze dei secoli passati a mio avviso avrebbe scandalizzato i "piccoli", i preferiti dal Signore Gesù (cfr. Matteo 11,25): perché il popolo fedele, che non sa fare molte distinzioni teologiche, da quelle autoaccuse vedrebbe insidiata la sua serena adesione al mistero ecclesiale, che (ci dicono tutte le professioni di fede) è essenzialmente un mistero di santità. Il papa testualmente allora disse: "Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci". Purtroppo non ci ha pensato abbastanza.
Conclave 2005, che cosa ho detto al futuro papa (pp. 614-615)
I giorni più faticosi per i cardinali sono quelli che precedono immediatamente il conclave. Il Sacro Collegio si raduna quotidianamente dalle ore 9,30 alle ore 13, in un’assemblea dove ciascuno dei presenti è libero di dire tutto ciò che crede. S’intuisce però che non si possa trattare pubblicamente l’argomento che più sta a cuore agli elettori del futuro vescovo di Roma: chi dobbiamo scegliere? E così va a finire che ogni cardinale è tentato di citare più che altro i suoi problemi e i suoi guai: o meglio, i problemi e i guai della sua cristianità, della sua nazione, del suo continente, del mondo intero. È senza dubbio molto utile questa generale, spontanea, incondizionata rassegna delle informazioni e dei giudizi. Ma senza dubbio il quadro che ne risulta non è fatto per incoraggiare. Quale fosse nell’occasione il mio stato d’animo e quale la mia riflessione prevalente emerge dall’intervento che dopo molte perplessità mi sono deciso a pronunciare il venerdì 15 aprile 2005. Eccone il testo: "1. Dopo aver ascoltato tutti gli interventi – giusti opportuni appassionati – che qui sono risonati, vorrei esprimere al futuro papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche che non si preoccupi troppo di tutto quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario: 'Mi ami tu più di costoro?' (cfr. Giovanni 21,15). In una 'striscia' e 'fumetto' che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda, ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: 'Ho capito; – diceva quella terribile e acuta ragazzina – il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi'. "2. Vorrei dire al futuro papa che faccia attenzione a tutti i problemi. Ma prima e più ancora si renda conto dello stato di confusione, di disorientamento, di smarrimento che affligge in questi anni il popolo di Dio, e soprattutto affligge i 'piccoli'. "3. Qualche giorno fa ho ascoltato alla televisione una suora anziana e devota che così rispondeva all’intervistatore: 'Questo papa, che è morto, è stato grande soprattutto perché ci ha insegnato che tutte le religioni sono uguali'. Non so se Giovanni Paolo II avrebbe molto gradito un elogio come questo. "4. Infine vorrei segnalare al nuovo papa la vicenda incredibile della 'Dominus Iesus': un documento esplicitamente condiviso e pubblicamente approvato da Giovanni Paolo II; un documento per il quale mi piace esprimere al cardinal Ratzinger la mia vibrante gratitudine. Che Gesù sia l’unico necessario Salvatore di tutti è una verità che in venti secoli – a partire dal discorso di Pietro dopo Pentecoste – non si era mai sentito la necessità di richiamare. Questa verità è, per così dire, il grado minimo della fede; è la certezza primordiale, è tra i credenti il dato semplice e più essenziale. In duemila anni non è stata mai posta in dubbio, neppure durante la crisi ariana e neppure in occasione del deragliamento della Riforma protestante. L’averla dovuta ricordare ai nostri giorni ci dà la misura della gravità della situazione odierna. Eppure questo documento, che richiama la certezza primordiale, più semplice, più essenziale, è stato contestato. È stato contestato a tutti i livelli: a tutti i livelli dell’azione pastorale, dell’insegnamento teologico, della gerarchia. "5. Mi è stato raccontato di un buon cattolico che ha proposto al suo parroco di fare una presentazione della 'Dominus Iesus' alla comunità parrocchiale. Il parroco (un sacerdote per altro eccellente e ben intenzionato) gli ha risposto: 'Lascia perdere. Quello è un documento che divide'. 'Un documento che divide'. Bella scoperta! Gesù stesso ha detto: 'Io sono venuto a portare la divisione' (Luca 12,51). Ma troppe parole di Gesù oggi risultano censurate dalla cristianità; almeno dalla cristianità nella sua parte più loquace".
Il libro, in vendita dal 30 ottobre 2007: Giacomo Biffi, "Memorie e digressioni di un italiano cardinale", Cantagalli, Siena, 2007, pp. 640, euro 23,90.
Svelato l’intrigo internazionale del processo contro i Templari
Clemente V sospese, pur assolvendo, l'Ordine per impedire lo scisma con la Francia
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 25 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Il Pontefice Clemente V (1305-1314), pur assolvendo i Templari, ne sospese l'Ordine con sentenza non definitiva per impedire uno scisma con la Francia e salvare la Chiesa.E' quanto ha detto questo giovedì intervenendo alla presentazione in Vaticano del Processus Contra Templarios la prof.ssa Barbara Frale, Officiale dell’Archivio Vaticano e già autrice di diversi volumi sui Templari, l’ultimo dei quali edito da Il Mulino nel 2004.La Frale ha spiegato che sui Templari è nata una quantità infinita di leggende, favorite anche dalla grande perdita di documenti di un processo che va dal 1307 al 1312: "Un intrigo internazionale, un gioco di poteri dove si scontravano l’autorità della Chiesa e l’autorità di alcuni sovrani".L’esperta ricercatrice ha sottolineato che i documenti presentati nel volume Processus Contra Templarios "hanno una grande importanza sul piano storico per una corretta rilettura del processo proprio perché la storiografia nel corso del tempo si è lasciata suggestionare, addirittura negando che i Templari avessero colpe di qualunque tipo". Secondo le ricerche condotte dalla Frale, l’Ordine del Tempio "era affetto da gravi mali anche se non si trattava di eresia" e i documenti pubblicati "mostrano quella che fu la vera posizione di Clemente V riguardo all’accusa mossa contro i Templari". E’ convinzione della prof.ssa che il Papa ha presieduto questa inchiesta, personalmente, in ogni sua fase finchè non fu bloccato dal Re di Francia, il quale aveva già estorto al Gran Maestro del Tempio, frate Jacques de Molay, l’ammissione di colpevolezza.Clemente V passò infatti in rassegna una per una le inchieste svolte attribuendo particolare valore probatorio soprattutto a quella che lui stesso aveva presieduto a Poitiers nell'estate del 1308, sulla legalità della quale aveva vigilato di persona.La Frale ha raccontato che "Clemente V era un grande giurista, un uomo astuto, una personalità completamente diversa da quella che per tanto tempo è stata descritta" e che, nonostante si trovasse in una condizione di inferiorità assoluta negli equilibri di forze in campo in quel tempo, "riuscì a compiere l’inchiesta sui Templari, proprio perché era l’unica persona al mondo in grado di estendere il suo giudizio su questo Ordine".L’assoluzione del Gran Maestro dei Templari arrivò dopo la confessione di una serie di colpe e dopo che l’Ordine fece atto di sottomissione alla Chiesa, chiedendo il perdono del Papa. "E tutto questo – ha aggiunto la Frale – si trova nella pergamena che venne redatta a seguito dell’inchiesta degli interrogatori nel castello reale di Chinon", dove Filippo il Bello aveva illecitamente recluso l’ultimo Gran Maestro del Tempio ed alcuni alti dignitari dell’Ordine.Circa il ritrovamento di questa pergamena, avvenuto nel 2001, la ricercatrice ha detto che "è sorprendente e incredibile che pur essendo custodita con estrema cura all’interno dell’Archivio Pontificio, fin dai tempi di Clemente V, pur essendo già segnalata in catalogo del 1828 e in maniera più dettagliata in quello del 1912, gli studiosi, anche quelli di mestiere, l’avessero ignorata per tanto tempo". Tra i motivi di questa non scoperta, la Frale ha spiegato che "ci può essere stato un equivoco involontario, perché nel catalogo del 1828, la pergamena di Chinon era stata indicata come un inchiesta nella diocesi di Tour in Francia, cioè una tra le tante inchieste svolte nelle diverse diocesi della Francia". L’indizio che ha fatto riflettere la studiosa è che, passando in rassegna l’inventario del 1912, nell’inchiesta figuravano tre Cardinali plenipotenziari che formavano la speciale Commissione apostolica ad inquirendum nominata da Clemente, il principale dei quali, Bérenger Frédol, era il nipote del Papa, un grande giurista, l’uomo più importante del Collegio cardinalizio, un uomo che conosceva bene l’inquisizione e gli eretici."Come poteva un uomo di questa importanza lasciare la Curia romana e andare in provincia, a condurre una inchiesta poco rilevante?", si è domandata la Frale."Com'è possibile che un Papa potesse acconsentire che un sovrano laico distruggesse un pezzo della Chiesa di Roma per sottrargli i beni da utilizzare in una guerra contro un altro sovrano cattolico, il Re d’Inghilterra?", si è chiesta ancora."Tutto questo era assolutamente impossibile, ma l’analisi delle fonti ci ha portato a scoprire la verità", ha affermato la Frale. La pergamena di Chinon dimostra, insieme ad altre fonti coeve, che Clemente V intendeva riformare radicalmente e salvare l’esistenza dell’Ordine templare dandogli un ruolo nuovo, per poi fonderlo in un istituto unico con l’altro grande Ordine religioso-militare degli Ospitalieri. L’atto di Chinon, che dichiara i Templari non prosciolti bensì assolti, suscitò le reazioni della monarchia francese tanto da costringere Clemente V all’ambiguo compromesso sancito nel 1312 durante il Concilio di Vienne, con la bolla Vox in excelso, nella quale dichiarava che il processo non aveva comprovato l’accusa di eresia ma solo l’indegnità e il malcostume diffusi fra molti membri dell’ordine.Pertanto sancì che fosse sospeso con sentenza non definitiva, motivata dalla necessità di evitare un grave pericolo per la Chiesa.Così, ha continuato la ricercatrice, "i Templari vennero sacrificati per evitare uno scisma che avrebbe portato alla formazione di una Chiesa di Francia staccata dalla sede di Roma". La Frale ha concluso sostenendo che "di fatto, Clemente V ha sacrificato quello che restava dei Templari dopo sette anni di processo per salvare la Chiesa".
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Dalla legge del 2000 alle decisioni dei governi di entrambi gli schieramenti Un "rapporto" offerto ai genitori e alla politica per fare chiarezza su un tema decisivo nella costruzione del bene comune
"Scuola paritaria, meno di così..."
Avvenire, 26.10.2007Auspichiamo il reperimento delle risorse necessarie per realizzare nel nostro Paese la libera scelta educativa delle famiglie. Tuttavia in sede di Finanziaria 2008, consapevoli del momento di difficoltà economica per il Paese, non quantifichiamo le risorse occorrenti per una effettiva parità economica e ci limitiamo invece a definire le risorse minime necessarie quanto meno per rifinanziare adeguatamente gli attuali capitoli di spesa. Scuole dell’infanzia paritarie Le risorse attualmente destinate alle scuole dell’infanzia sono 'ferme' (anzi in riduzione di alcuni milioni di euro) già da quattro esercizi finanziari, a fronte di un incremento dell’utenza.Per riadeguare le risorse destinate a questo ordine di scuole solo in termini di inflazione, di incremento dell’utenza e di incremento minimo del contributo (5%), occorre passare dagli attuali (Ef 2006) 355 milioni di euro, a 440 milioni di euro (parte discreta di queste risorse andrebbe anche alle scuole paritarie comunali). Scuole primarie paritarie Con le risorse attualmente destinate alle convenzioni non è possibile procedere alla stipula delle stesse per tutte le classi e i bambini certificati aventi diritto.Si determina in tal modo una situazione di disparità fra scuole e scuole e dunque fra alunni e alunni. Vi sono scuole paritarie con convenzioni e altre prive, senza che fra le stesse vi siano differenze di natura giuridica ma solo in ragione delle scarsità delle risorse assegnate.Per consentire la stipula di convenzioni per tutte le classi paritarie e per tutti gli studenti certificati frequentanti queste scuole, occorre passare dagli attuali (Ef 2006) 160 milioni di euro, a 250 milioni di euro. Scuole secondarie di primo e secondo grado Per consentire di assegnare a tutte le scuole paritarie di primo e secondo grado le risorse (estremamente limitate) previste dal Decreto ministeriale per l’a.s.2007/2008 ed elevarle minimamente, stante l’attuale limitatezza, occorre passare da (Ef 2006) 7 milioni di euro, a 40 milioni di euro. Inserimento studenti certificati con handicap L’accoglimento di studenti disabili è un vincolo legislativo per le scuole paritarie, introdotto dalla legge 62/2000; ad esso non ha però fatto seguito la necessaria adeguata copertura finanziaria. Di fatto (a parte il caso della scuola primaria convenzionata) le risorse annualmente stanziate in Finanziaria non consentono di realizzare il fondamentale diritto soggettivo del disabile, salvo che non intervengano a proprie spese le scuole e le famiglie.Per consentire l’accoglimento di tutti i bambini certificati con handicap attualmente frequentanti le scuole paritarie alle medesime condizioni delle convenzioni per le scuole primarie paritarie, occorre passare dagli attuali (Ef 2006) 10 milioni di euro, a 70 milioni di euro.Nella tabella 2 di questa pagina si riassumono le richieste concernenti la Legge finanziaria 2008 (il paragone è con l’Ef 2006, non essendo ancora disponibili i dati definitivi concernenti l’Ef 2007).Un incremento di 233,5 milioni di euro rispetto alle risorse assegnate nell’Ef 2006 corrisponde al 3,7% di quanto lo Stato 'risparmia' con la mancata frequenza delle scuole statali da parte degli studenti delle scuole paritarie.
S. Padre Pio: "Ha sofferto tanto, mai un lamento"
Famiglia: Convivenza o nozze – Per i bambini non è lo stesso
venerdì 26 ottobre 2007
Rassegna stampa a cura di Giorgio Razeto
ora: 14:26
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