domenica 28 ottobre 2007

Rassegna stampa a cura di Giorgio Razeto

LE DOMANDE
di GIANFRANCO RAVASI
Avvenire, 28.10.2007
L’ arte di interrogare non è facile come si pensa. È più arte da maestri che da discepoli. Bisogna già aver imparato molte cose per saper domandare ciò che non si sa.
Paradossalmente (ma non troppo) lo scrittore inglese Oscar Wilde diceva che a dar risposte sono capaci tutti, ma per fare le vere domande ci vuole un genio. Più o meno la stessa cosa è affermata anche nel passo sopra citato che ho tratto dal romanzo La nuova Eloisa (1761) del notissimo filosofo francese Jean-Jacques Rousseau. Alla base di questa considerazione c’è la forza della domanda che è di sua natura ricerca di senso. È proprio per questo che il bambino è implacabile coi suoi "perché?". In lui non si è ancora sterilizzato - come accade all’adulto superficiale o disincantato o deluso - il desiderio di sapere, l’ansia di capire, la curiosità della scoperta. La scienza stessa si fonda su una continua interrogazione nella quale ogni risposta è base per un’ulteriore domanda che fa procedere verso nuovi orizzonti.
Abbiamo voluto proporre questo tema in una giornata domenicale proprio perché è forse il tempo più adatto - coi suoi spazi maggiori di libertà e di quiete - per compiere un esercizio radicale. Sono tutte importanti le domande serie, ma ce ne sono alcune capitali come l’interrogarsi sul senso ultimo della vita, sulle scelte decisive, sui valori da ricercare. Purtroppo questo esercizio (che un tempo si chiamava 'meditazione' o 'esame di coscienza') è diventato raro e fin obsoleto. Eppure senza il fiore delle domande che sbocciano come tanti petali, non si ha poi il frutto delle risposte che indicano una strada o una meta nell’itinerario della vita.

LA FEDE NON È PAURA
VAGHEZZA LAICA DAVANTI ALLA DOMANDA DI DIO

DAVIDE RONDONI
Avvenire, 27.10.2007
Sergio Romano ieri dedicava il suo e­ditoriale sul 'Corriere' al fenomeno dell’aumento del turismo religioso a Ro­ma. Ci si poteva aspettare un peana al sindaco e leader Veltroni e sulle mille at­trattive della capitale. Invece Romano va subito dritto al dubbio che arrovella lui e probabilmente un po’ degli intellettuali che redigono e dei padroni che gover­nano il giornale di via Solferino.
Com’è possibile che Papa Ratzinger 'attragga'? Un Papa, perdipiù proprio come questo, 'un dottore della chiesa, una cat­tedra di principi irrinunciabili e di solenni silenzi', opposto dal notista del Corriere a un Giovanni Paolo II, 'apostolo moderno'? La conclusione che tira il giornalista e storico vorrebbe essere 'tranquillizzante'. Tranquilli, ragazzi, suggerisce l’editoriale già dal suo titolo, è la solita vecchia faccenda. La solita storia, quella che sappiamo a memoria e che ci hanno ripetuto alla nausea da almeno trecento anni: quando l’uomo ha paura si accosta a figure carismatiche e riscopre la religione. E dinanzi a questo avanzare di paure, le persone di varie categorie si affidano al carisma di uomini certi.
L’editorialista cita alcuni fenomeni che a suo dire provano questo revival religioso, accostando un po’ alla rinfusa i funerali con rito orotodosso di Eltisn alla lotta non violenta dei monaci, o il peso elettorale dei 'rinati' americani con l’osservanza del ramadam di milioni di cittadini oggi europei. E naturalmente conclude questo suo strambo elenco mettendo in cima l’integralismo musulmano (quello che ispira i kamikaze, par di capire) come la 'manifestazione più evidente e radicale' di tale revival. L’editoriale si conclude con un bizzarro appello ai laici: si preparino con altrettanto zelo e rigore a difendere i propri valori.
Il discorso di Romano è vecchio. E mi permetto di aggiungere un termine che può suonare strano accanto al nome di un così posato intellettuale come Romano: è pericoloso. Interpretare il fenomeno religioso come se fosse una specie di impulso irrazionale mosso da paure di vario genere, è ripetere una lezioncina rifritta, è banalizzare un fenomeno ben più complesso e nobile, indagato anche in questi anni da studi antropologici seri e liberi da paraocchi veteroilluministi. E banalizzare, in un momento di fenomeni complessi, è l’anticamera di possibili violenze e di maggiori torbidi.
Quando coloro che si autodefiniscono 'i laici' accettano che l’interlocutore che si definisce religioso non sia solo un fobico, o un intimorito dalla vita, allora si fanno veri passi avanti, e si scoprono un sacco di cose interessanti. Ad esempio che nell’uso veramente laico della ragione, nell’onestà laica di fronte ai fenomeni, la reale differenza non passa tra i cosiddetti laici e i religiosi, ma tra faziosi e no, tra veri laici credenti o meno, e uomini ideologici. E si scopre pure che accomunare i fenomeni religiosi presenti in modo così vario e stupefacente molto spesso non ha senso, al di là di una generica appartenenza di tutti a un livello inestirpabile della natura umana di sempre, che è la richiesta di un senso. Insomma si scopre che non tutte le fedi sono uguali, che ci sono storie, differenze, varietà mirabolanti che uno spirito laico deve saper cogliere.
Tutto questo per fortuna sta accadendo, e proprio sotto il papato di Ratzinger, il Papa che sta sfidando la mentalità di tutti, credenti in un Dio o no, all’uso autentico della ragione. Il Papa infatti sta invitando (con qualche successo) alla riscoperta di quanto un uomo veramente raionevole e aperto alla vita sia un uomo religioso. Forse è proprio ciò che preoccupa qualcuno. Il vecchio steccato che si prova in modo così approssimativo ad erigere o puntellare, buttando nello stesso mucchio fenomeni diversi (un po’ di laicissima capacità di analisi non guasterebbe) non tiene. A chi fa comodo puntellarlo? A chi ha buoni o cattivi argomenti? E per preparare quali evitabili scontri?





Il Corriere della Sera ha ormai impugnato una vera e propria guerra volta a demolire il Santo da Pietralcina, forse per pubblicizzare il libro di Luzzatto che guardacaso è pubblicato dalla stessa Rizzoli. Antonio Socci risponde per le rime con un articolo ben documentato. Da segnalare che Socci sta per dare alle stampe un libro dedicato proprio a Padre Pio, che sarà nelle librerie a partire dal prossimo 14 novembre con il titolo Il Segreto di Padre Pio.

Nuove rivelazioni su Padre Pio? No, sono le solite panzane
Di Antonio Socci
("Libero", 25/10/2007)
Se Gesù tornasse e fosse visto anche oggi mentre cammina sulle acque, certi giornali l’indomani titolerebbero: "Clamoroso. Gesù di Nazareth non sa nemmeno nuotare". Come certi dotti che, avendo Gesù guarito un paralitico, lo accusarono di aver compiuto il miracolo di sabato, giorno festivo.
Finisce nel ridicolo il pregiudizio che nega l’evidenza. Un tempo lo usavano contro Gesù, poi contro i santi, come padre Pio.
Ho appena consegnato alla Rizzoli (e sarà in libreria il 14 novembre prossimo) il mio libro su questo grande santo e su alcune cose sconvolgenti che ha compiuto e – avendo consultato decine di volumi, compresi quelli della causa di beatificazione – ho fatto una indigestione di fango. E’ impressionante la varietà di accuse, insinuazioni e calunnie che per mezzo secolo gli sono state rovesciate addosso. Spesso da parte ecclesiastica.
Le "virtù eroiche" che la Chiesa ha infine riconosciuto a padre Pio, dichiarandolo – per volontà di Giovanni Paolo II - "beato" nel 1999 e "santo" nel 2002, si riferiscono anche all’umiltà evangelica con cui ha sopportato in silenzio tanto fango: "beati sarete voi" avvertì Gesù stesso "quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia" (Mt 5, 11).
D’altra parte alla fine i crocifissi vincono sempre. E’ una storia vecchia.
Una cosa (soprannaturale) è la Chiesa, altro sono gli uomini di Chiesa. Gli uomini di Chiesa bruciarono Giovanna d’Arco e la Chiesa l’ha fatta santa. Gli uomini di Chiesa hanno perseguitato Giuseppe da Copertino, Giuseppe Calasanzio e don Bosco; la Chiesa li ha fatti santi. Così con padre Pio. Padre Gerardo di Flumeri, vicepostulatore della causa, ha scritto: "A causa delle stigmate, padre Pio fu sospettato di essere un imbroglione, un mistificatore, un nevrotico, un ossesso. E questi sospetti provenivano non soltanto da miscredenti, dagli atei, ma addirittura da alcuni suoi confratelli, da qualche superiore e anche dalle autorità ecclesiastiche.
Padre Pio subì condanne dal Sant’Uffizio e restrizioni alla sua libertà di apostolato".
Alla fine la verità ha trionfato. Ma, com’è noto, le antiche accuse messe in giro riemergono periodicamente dagli archivi. C’è per esempio quella, fra le più note e meschine, secondo cui il padre stesso si sarebbe procurato le stimmate con degli acidi. L’insinuazione nacque dal fatto che padre Pio – era cosa nota e ovvia – dopo la stimmatizzazione del 20 settembre 1918 usava la tintura di iodio e poi l’acido fenico sperando di tamponare il sangue che fluiva in quantità dalle ferite e per pulire le piaghe aperte.
Certi ecclesiastici in malafede ci costruirono sopra la loro accusa. Sono gli stessi che lo accusarono di profumarsi perché dalla sua persona crocifissa emanava a volte uno straordinario aroma di fiori. Anche questa insinuazione era infondata infatti questo fenomeno soprannaturale si verificava soprattutto quando il padre era lontano (faceva sentire il suo profumo ai suoi figli spirituali nei momenti di bisogno) e anche dopo la sua morte e lo attestano centinaia di testimonianze (l’ "osmogenesia" ha riguardato anche altri santi).
Ieri, sul Corriere della sera, Sergio Luzzatto ha pubblicato un biglietto con cui padre Pio chiedeva a una sua figlia spirituale di comprargli in farmacia "200-300 grammi di acido fenico puro per sterilizzare". E un’altra sostanza analoga. Oltretutto perché in piena epidemia di spagnola in convento si usavano per sterilizzare le siringhe per fare le iniezioni ai frati ammalati (era proprio il giovane padre Pio a farle, come infermiere d’emergenza).
E dov’è la notizia? La cosa in sé è del tutto risibile. La notizia però non sta nel fatto, quanto nell’insinuazione con cui in quell’estate 1919 fu fatta arrivare in Vaticano. Ed è quel sospetto che ieri ha fatto fare il titolo al "Corriere": "Padre Pio, ecco il giallo delle stigmate". Sottotitolo: "Nel 1919 fece acquistare dell’acido fenico, una sostanza adatta per procurarsi piaghe alle mani".
Primo. In questo biglietto di Padre Pio non c’è davvero nessuna aura di segretezza cospirativa che possa alimentare i sospetti, ma al contrario un tono di serena normalità quotidiana ("Carissima Maria, Gesù ti conforti sempre e ti benedica! Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da 200 a 300 grammi di acido fenico puro per sterilizzare. Ti prego di spedirmela la domenica e farmela mandare dalle sorelle Fiorentino. Perdona il disturbo"). Mandare un tale biglietto in giro è semmai prova di purità e di una coscienza solare.
Secondo. A quella data (estate 1919) padre Pio portava già le stigmate da un anno e dunque sarebbe comico affermare che nell’estate 1919 egli si procurò dell’acido per prodursi delle ferite nel settembre 1918. Terzo: le ferite che portava non erano "macchie o impronte, ma vere piaghe perforanti le mani e i piedi" e quella del costato "un vero squarcio che dà continuamente sangue" (cose incompatibili con bruciature da acido). Quarto. Il padre portò le stimmate per 50 anni e non poté certo procurarsi – con la segretezza del cospiratore - per mezzo secolo dosi industriali e quotidiane di acido (oltretutto per interi periodi fu segregato e sempre controllatissimo).
Ma soprattutto su quelle stimmate ci sono i referti medici di fior di studiosi, dal professor Romanelli al professor Festa, che a quel tempo le analizzarono, ripetendo le visite a distanza di anni e arrivando sempre alla conclusione che non potevano essere state prodotte né dall’artificio umano, né da uno stato psicopatologico, ma avevano un’origine non naturale. Romanelli argomenta, come scrive Fernando da Riese, che non può essere stato l’acido a provocare le ferite perché esso "non permetterebbe ai tessuti causticati di dare sangue e sangue rutilante", soprattutto di venerdì, come invece ha continuato ad accadere per decenni. Il dottor Festa ha confermato con altri studi. Inoltre l’acido avrebbe dato origine a ferite diverse da quelle dai contorni netti.
Questi medici negarono anche l’origine nervosa perché mai nella letteratura scientifica si era verificata e perché se anche fosse "una volta prodotte (tali ferite) dovrebbero seguire il decorso di qualunque altra lesione, cioè guarire o suppurare".
E invece per mezzo secolo le stimmate di padre Pio sono state un miracolo permanente: né rimarginavano, né suppuravano, dando sempre sangue fresco.
Il professor Bignami, che essendo di idee positiviste neanche ammetteva l’ipotesi soprannaturale, finì per fornire la migliore conferma: fece isolare e sigillare per giorni le piaghe con la certezza che sarebbero infine guarite o migliorate e invece si verificò l’esatto contrario.
Le stimmate, che padre Pio peraltro portò con immenso imbarazzo (sentendosene indegno), sparirono solo quando il santo lo chiese come grazia al Cielo e cioè alla vigilia della sua morte nel 1968: si chiusero improvvisamente (come erano venute) e senza lasciare traccia. Con quelle sofferenze padre Pio "pagò" milioni, letteralmente milioni, di grazie ottenute per chiunque soffrisse (si studino i dossier medici) e milioni di conversioni: comunisti, massoni, protestanti, agnostici (perfino qualche ecclesiastico) che trovavano la fede dopo essere andati a San Giovanni Rotondo magari con ostilità o pregiudizio.
Si convertivano non perché padre Pio facesse discorsi o teorie colte. No.
Solo per la sua santità, cioè per la potenza di Dio. Perché lui si prendeva letteralmente su di sé le loro sofferenze, senza averli mai visti il padre mostrava di conoscere il loro passato, leggeva nella loro anima, otteneva la guarigione di malati inguaribili, si manifestava a distanza col suo profumo e la bilocazione, prediceva eventi che sarebbero accaduti e compiva altre opere sconvolgenti. Il mistero di padre Pio è ancora da capire.

CHIACCHIERE, P. PIO E PAPA GIOVANNI COME UNA LAMA NELLA FEDE DEL NOSTRO POPOLO MARINA CORRADI
Avvenire, 28.10.2007
"Padre Pio, un immenso inganno", titolava in questi giorni il Corrie­re in prima pagina, riportando stralci di un libro dello storico Sergio Luzzatto dedicato al frate di Pietrelcina. Immenso inganno, disastro d’anime: sono espressio­ni di Papa Giovanni XXIII, e la rivelazione del Corriere deve essere parsa a molti straordinaria. Senonché, come hanno dichiarato poi su tutti i giornali illustri sto­rici e testimoni diretti come monsignor Loris Capovilla, le espressioni del Papa, ingenerate dalle informazioni che gli ar­rivavano dai collaboratori, erano com­pletate da un " si vera sunt quae referentur ", cioè "se le cose riferite sono vere".
Ora, il problema è che quelle cose non e­rano vere: come hanno accertato anni di indagini nel corso del processo di canonizzazione di Padre Pio. I dubbi di Roncalli, ingenerati dalle informazioni che arrivavano in Vaticano, sono noti e pub­blicati da decenni, e scritti nello stesso diario del Papa. La santità che quarant’anni dopo risultò evidente a Wojtyla, nei giorni in cui si mostrava con eventi eccezionali, nell’eccitazione tumultuosa della devozione popolare, non era così facilmente riconoscibile. La Chiesa, com’è suo dovere e con le sue difficoltà, vagliava.
Ma, se le perplessità di Roncalli erano note da anni, qual è il senso di pubblicarle in prima pagina – "Padre Pio, un immenso inganno?". Se la notizia esplosiva si rivela un petardo, e gli addetti ai lavori già lo sapevano bene, perché sbattere il mostro fasullo in prima pagina?
Partiamo dall’effetto che un titolo simile, ripreso e ripetuto dai tg, può avere avuto su tanti credenti semplici, quelli che amano "il Papa buono" e Padre Pio quasi in uguale misura. Su quelli, e sono milioni, che in casa hanno l’immagine di tutti e due. Ecco, prendete questa gente, lo zoc­colo della fede popolare in Italia, e ditegli: per Roncalli, Padre Pio era un inganno. (Dunque, o aveva ragione e il frate e­ra un impostore, o aveva torto, e in malafede era lui stesso. Quindi almeno una delle due figure più mitiche della Chiesa italiana del Novecento non è quella che credete). Il giorno dopo, certo, gli storici spiegheranno la "contestualizzazione", e quella piccola clausola, "se le cose riferite sono vere". Ma, intanto, lo scandalo c’è stato. Come una lama, come un dubbio tagliente nei pensieri di molti. Lo scan­dalo divide, intacca le vecchie certezze, e impedisce che ne sorgano di nuove.
Ora, tutto questo sarebbe semplicemen­te un’operazione giornalistica azzardata, se non si ripetesse, in modi e toni diversi ma simili, ormai sistematicamente. Se si legge di Chiesa cattolica, oggi, è quasi cer­tamente una presunta 'inchiesta' sui "misteri" dell’8 per mille, "segreti" – ci di­cono – dimenticando di dire che l’utiliz­zo di quei fondi viene pubblicato ogni an­no sui giornali. Oppure è un presunto "documentario" sui preti omosessuali, ingannati con un bel trucco via on line.
Si vorrebbe far diventare la Chiesa, nell’immaginario mediatico, un sinonimo di corruzione, ipocrisia, disinvoltura finan­ziaria o peggio. Ora, pur ben certi che la Chiesa è fatta di uomini come gli altri, tanto accanimento sui presunti peccati o contraddizioni dei religiosi è davvero sin­golare. Come un metodico insegnamen­to: guardate che non c’è nulla di vero, è tutta una bugia. Detto con mezzi potenti, con titoli brutali. Il giorno dopo, certo, le precisazioni, i però, ma intanto quel ti­tolo è andato addosso come un pugno a tanti, alla fede non culturalmente attrezzata di tanti.
Perché una tale insistenza sui "peccati" della Chiesa? La Chiesa oggi rimane l’unica voce forte a contrastare la cultura che ci domina: il mito dell’individuali­smo, del successo, dell’arbitrio spacciato per libertà, e l’uomo come materia, programmabile o eliminabile come si voglia, sono tutti fronti su cui la Chiesa combatte, e spesso da sola.
Niente di meglio, per screditarla, e di più facile, che screditarne gli uomini. Così che taccia, finalmente, quella ostinata voce fuori dal coro.


Satana ed i suoi fedeli testimoniano a favore di S. Padre Pio
In questo periodo di burrascosa polemica, che ha sempre accompagnato la storia di S. Padre Pio, è di grande importanza sentire cosa hanno da dire dei testimoni di sicura autorità ed assoluta imparzialità: Satana ed i suoi fedeli.
Nel libro "Fuggita da Satana" (Michela, edizioni Piemme, 2007, € 10), Michela racconta la sua storia di adepta di una potente setta satanica attiva in Italia.
Ecco qualche stralcio che tratta dei santi e in particolare di S. Padre Pio: "Dopo la conversione mi ha colpito quanto i satanisti conoscessero tutte le feste della Chiesa e come fossero riusciti ad elaborare dei riti che si ponevano in diretta ed evidente opposizione alla liturgia cattolica…Numerose feste di santi erano momenti fortissimi della nostra anti-liturgia…I santi venivano osteggiati in quanto erano persone che avevano suscitato avversione in Satana. Insieme con loro si attaccavano anche i devoti. Un esempio è Padre Pio, che alla metà degli anni Novanta non era ancora beato (lo sarà nel 1999, e santo nel 2002). Contro di lui si diceva di tutto: si potrebbe affermare che i satanisti lo avevano canonizzato prima dei cattolici, o comunque erano convinti in anticipo della sua santità, ben prima che venisse proclamata ufficialmente dalla Chiesa. C’era, inoltre una precisa ritualità contro i suoi figli spirituali e contro tutti i suoi devoti, associati ai Gruppi di preghiera: venivano proprio fatte delle maledizioni su di loro e queste espressioni di maledizione potevano durare anche un’oretta, all’interno della messa nera" (Cap. IV, Un "anno liturgico" al contrario, pagg. 105 e segg.).
Di fronte ad una testimonianza come questa, tutti i dubbi sono fugati. Sembra proprio che la campagna di screditamento e distorsione della verità, allo scopo di confondere i "piccoli" sia orchestrata dal principe di questo mondo in persona.
S. Padre Pio, prega per noi.
Giorgio Razeto


Il Pontificio Istituto di Studi Arabi commenta la lettera dei 138 musulmani
"Un evento altamente significativo"

ROMA, venerdì, 26 ottobre 2007 (ZENIT.org).- "Un evento altamente significativo, che non va passato sotto silenzio". Così hanno commentato i membri del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (PISAI) di Roma la lettera aperta che 138 tra i principali intellettuali e muftì musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato a Benedetto XVI e alle altre guide delle Chiese cristiane.Lo sostengono in un documento diffuso questo giovedì e firmato dal Preside del PISAI, p. Miguel Ángel Ayuso Guixot, dal Direttore degli Studi, p. Etienne Renaud, e dai professori p. Michel Lagarde, p. Valentino Cottini e p. Felix Phiri.In primo luogo, si dicono "colpiti dai larghi orizzonti in cui questo testo si pone": "larghezza nei firmatari, centotrentotto personalità musulmane di numerosi Paesi e di tutti i continenti, la cui appartenenza presenta sfumature diverse; larghezza nei destinatari, tutte le guide delle diverse Chiese cristiane, ventotto delle quali nominate esplicitamente".Allo stesso modo, viene anche sottolineata "l’estensione dell’ambito proposto, che comprende i musulmani, i cristiani, gli ebrei e gli uomini di tutto il mondo". La lettera, datata 13 ottobre 2007 e resa nota in occasione della fine del Ramadan, lanciava la proposta per una più solida cooperazione tra cristiani e musulmani nella promozione della pace nel mondo.Gli autori del testo "non si rifugiano in una sterile rivendicazione difensiva dell’umma [comunità, ndr.]; si pongono piuttosto come partner dell’intera umanità, per la quale propongono il loro proprio modo di concepire i fondamenti e i principi – riconosciuti anche dalle altre comunità – in vista di preservarne la sopravvivenza in una pace generale ed effettiva".Tratto importante è inoltre "l’ampiezza delle prospettive", sottolineano. Gli autori del testo si interessano infatti "sia alla sorte del mondo attuale, in gioco qui e ora, sia al mondo delle ‘anime eterne’, in gioco altrove e nel futuro". "La duplice prospettiva, insieme immanente e trascendente, mette in moto in questo discorso una corrente forte e liberatrice".Lo staff del PISAI si dice quindi colpito "dal carattere fondamentale del discorso, che pone in campo Dio e l’uomo". "È molto più facile limitarsi a idee generose, ma vaghe e generiche, piuttosto che attirare l’attenzione sull’urgenza dei diritti di Dio e dell’uomo, che esigono da ciascuno un’attenzione costante e un amore attivo e concreto"."Siamo impressionati anche dall’attenzione sincera, prestata dai firmatari della lettera, al riferimento principale che fonda l’altro in quanto ebreo o cristiano, cioè al doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo nel Deuteronomio e nell’Evangelo di Matteo", proseguono. La volontà di riconoscere l’altro nel desiderio più profondo di ciò che egli vuole essere è visto come "uno dei punti nodali del documento". E’ solo questa volontà che può garantire il successo di una relazione vera tra comunità culturalmente e religiosamente differenti, sostengono.E’ apprezzabile, continuano i membri del PISAI, anche il modo in cui gli autori del testo, in quanto musulmani, vedono in questi due comandamenti la definizione stessa della loro identità.Non lo fanno, sottolineano, "per compiacenza né per politica, ma in verità, solo a partire dalla proclamazione dell’unicità divina, perno della fede musulmana".L’accettazione radicale dell’unicità divina, infatti, "è una delle espressioni più autentiche dell’amore dovuto a Dio solo", e "l’amore di Dio è indissociabile da quello del prossimo". La fede, come ribadisce il Corano, non è mai separata dalle buone opere.Il realismo dimostrato dai firmatari della lettera"non impedisce loro di avere una visione positiva degli ostacoli e delle differenze che rimangono tra noi, al punto che, fedeli alla tradizione coranica che li ispira, non vi vedono che un’occasione per la ricerca del bene comune"."Stimolati dal loro atteggiamento, vogliamo ritenere anche noi l’interpretazione massimalista, secondo la quale i testi del Corano e della Tradizione profetica non limitano ai soli membri dell’umma i benefici che ogni musulmano è tenuto a prodigare al suo prossimo in nome della sua fede in Dio e del suo amore esclusivo per lui", ammettono."Un tale documento ci incoraggia a proseguire decisamente il nostro impegno, affinché la differenza delle nostre lingue e dei nostri colori, cioè le nostre differenze culturali profonde, lungi all’imbrigliarci nel sospetto, nella diffidenza, nel disprezzo e nel dissenso – come spesso si è verificato nelle nostre relazioni non solo nel passato ma anche in questo nostro tempo attuale – siano percepite come segni per coloro che comprendono, cioè, come una misericordia che proviene dal Signore nostro", concludono i membri del PISAI.


Franz Jägerstätter, martire della libertà di coscienza contro il nazismo
E' stato beatificato per la sua testimoniaza di fede fino al sacrificio

LINZ, venerdì, 26 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Ci fu un contadino, padre di famiglia, di nome Franz Jägerstätter che si oppose al regime nazista e andò incontro alla morte a soli 36 anni pur di non tradire il suo credo religioso.Questo venerdì, nel giorno in cui viene ricordata la liberazione dell'Austria dal nazismo, nella Cattedrale dell'Immacolata di Linz, il Cardinale José Saraiva Martins, C.F.M., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, su mandato di Benedetto XVI, lo ha elevato alla gloria degli altari.Franz Jägerstätter – come riportato nel sito della diocesi di Linz – nacque nel 1907 in un paesino a St. Radegund, nell'Alta Austria – la stessa terra che diede i natali anche ad Adolf Hitler –, ove trascorse l'infanzia e nel 1936 sposò Franziska Schwaninger. Dalla loro unione nacquero tre figlie. Franz e Franziska pregavano insieme, ricevevano quotidianamente la Comunione, formando la propria coscienza sulla lettura assidua delle Sacre Scritture. Lavorò come contadino, poi in una miniera di ferro in Stiria, e in seguito come sagrestano a St. Radegund.Fu membro del Terzo Ordine di San Francesco d'Assisi, ma soprattutto un profeta lungimirante nel riconoscere la barbarie del nazionalsocialismo che voleva strappare Dio dal cuore degli uomini e alimentava il razzismo, l'ideologia della guerra e la deificazione dello Stato.Fin dall'inizio, infatti, negò ogni collaborazione o sostegno ai nazionalsocialisti, che riuscirono ad annettere l'Austria alla Germania nel 1938.Chiamato alle armi nel 1943, in pieno conflitto mondiale, dichiarò che come cristiano non poteva servire l'ideologia hitleriana e combattere una guerra ingiusta per portare alla vittoria un regime senza Dio e permettergli di sottomettere sempre più popoli. A nulla valsero i tentativi di coloro che cercarono di convincerlo ad arruolarsi per non rischiare la vita.In una intervista a "Radio Vaticana", il postulatore della Causa di Beatificazione, l'avv. Andrea Ambrosi, ha detto che il suo parroco, Josef Karobath, usciva dai colloqui con lui "ammutolito" nel sentire le citazioni delle Sacre Scritture che faceva per motivare questa sua posizione.Dopo un nuovo richiamo Franz Jägerstätter si presentò l‘1 marzo 1943 alla sua compagnia ad Enns, ma si dichiarò subito renitente alla leva e contrario ad imbracciare un’arma per far del male a qualcuno.Successivamente, venne portato nel carcere della Wehrmacht di Linz, nell‘ex convento delle Orsoline. Due mesi di prigionia a Linz, con angherie e insulti, lo fecero precipitare in una profonda crisi e tensione spirituale, in cui corse il rischio di perdere la propria fede. La felicità provata accanto a Franziska rappresentò, però, per Franz un costante segno della presenza di Dio.Infine, il 9 agosto 1943 Franz Jägerstätter venne condotto a Brandeburgo sull‘Havel e lì decapitato. Quel giorno indirizzò alla sua famiglia rimasta a casa la sua ultima lettera, scritta poche ore prima dell'esecuzione, che la vedova, ancora vivente, conserva come un prezioso testamento. "Carissima sposa e madre – scrisse –, vi ringrazio ancora di cuore per tutto ciò che avete fatto per me nella mia vita, per l'amore che mi avete donato e per i sacrifici che avete sostenuto per me [...] non mi è stato possibile risparmiarvi le sofferenze [...] salutate da parte mia le mie care bambine, di tutto cuore. Pregherò il buon Dio, appena potrò arrivare in cielo, di riservare un posticino per tutti voi".Nel 1997 è stato ufficialmente aperto il processo per la beatificazione di Franz Jägerstätter, chiuso presso la diocesi il 21 giugno 2001. L‘1 giugno 2007 il Vaticano ha confermato ufficialmente il suo martirio.Nell'intervista alla "Radio Vaticana", il postulatore della Causa di Beatificazione ha affermato che Jägerstätter "è stato capace di sacrificare sull’altare dell’amore a Dio i suoi tenerissimi affetti terreni. La sua più grande aspirazione era quella di testimoniare la sua esclusiva appartenenza a Dio, essendo capace per questa sua indefettibile fedeltà di dare la propria vita". In un articolo apparso, invece, su "L'Osservatore Romano" (26 ottobre 2007), il postulatore ha raccontato che tra i 21 testimoni totali della Causa alcuni erano presenti agli ultimi giorni di vita del Servo di Dio, che anche in carcere continuava a pregare e meditare.In particolare, il sign. Gregor Breit, che condivise con lui la dura esperienza detentiva nel carcere militare di Linz, ha testimoniato come Jägerstätter "abbia sopportato con infinita pazienza la dura detenzione carceraria, evidentemente mosso da quella fortissima spinta religiosa che gli faceva superare il dolore di dover lasciare gli affetti più cari".Nel suo testamento vergato a Berlino nel luglio del 1943 si legge: "Scrivo con le mani legate, ma preferisco questa condizione al sapere incatenata la mia volontà. Non sono il carcere, le catene e nemmeno una condanna che possono far perdere la fede a qualcuno o privarlo della libertà".

"È una rivoluzione culturale"
DA MILANO
Avvenire, 28.10.2007
" Quella che proponiamo è una rivolu­zione culturale, fondata sulla costi­tuzione: la famiglia come soggetto centrale della società. In tutti i sen­si. Come luogo in cui è possibile risolvere tutti i pro­blemi della società. Aiutare la famiglia è aiutare la società. Da qui la necessità di un supporto con­creto, anche fiscale. Noi non siamo qui per la­mentarci. Facciamo nostro l’appello all’impegno dell’esortazione apostolica 'Familiaris Consortio' di Giovanni Paolo II, per non restare 'vittime dei mali che ci siamo limitati a os­servare con indifferenza'. Quel­la che ci troviamo ad affrontare oggi è una chiamata alla respon­sabilità ". È determinata Paola Soave, vicepresidente del Forum delle associazioni familiari, nel­l’avviare la raccolta di firme per la petizione "Un fisco a misura di famiglia" ieri a Milano, nel­l’ambito del convegno sulla sus­sidiarietà fiscale. L’obiettivo è un milione di firme.
Dopo il Family day, una nuova sfida?
Puntiamo a dare equità al nostro sistema fiscale. Le nostre fami­glie rispetto ai Paesi europei su­biscono un carico fiscale spro­positato. Per rendere l’idea: in I­talia per una famiglia di quattro persone con un reddito di 25mi­la euro l’aliquota media è del 6,9% pari a una imposta di 1.725 euro, mentre in Francia è dello 0,2, con una imposta di appena 52 euro. Se passiamo a 50mila euro di reddito l’a­liquota media in Italia sale al 26,4% con una im­posta di oltre 13mila euro, mentre in Francia si passa al 5% (imposta di 2.518 euro). Due mondi opposti. Così in Francia la donna lavora, si sposa e fa figli. E in Italia? La famiglia ha sempre più dif­ficoltà ad arrivare alla fine del mese.
Cosa proponete?
Abbiamo tradotto le nostre idee in una proposta operativa, supportata da numeri e dati reali per introdurre un nuovo sistema di tassazione che col­pisca il reddito realmente disponibile delle fami­glie, deducendo a monte le spese per il manteni­mento dei figli. Ci sembra assurdo che mentre per i figli si hanno oggi detrazioni ridicole, si possano invece detrarre le donazioni ai partiti, perché il partito è un bene sociale importantissimo. E i fi­gli, invece? Cosa rappresentano? Sono un fatto pri­vato: se li vuoi, li fai. Problema tuo. Questo non si può accettare.
In discussione, c’è insomma l’impianto ideologico del wel­fare nel nostro Paese?
La famiglia rappresenta il bene comune. Eppure sembra irrile­vante per la società. Anzi si cer­ca di sostituirla con altro. Pre­vale una logica individualistica. Lo Stato preferisce che il citta­dino sia solo, isolato, single. Il cittadino visto come individuo e non in relazione con gli altri. Nel suo contesto più vicino e na­turale che è la famiglia. L’indivi­duo è più facile da governare, mentre la famiglia è temuta. È scomoda. Come è stato scomo­do il Family day perché ha di­mostrato che le nostre non so­no solo sigle, ma sono persone, realtà vere, positive del Paese. Rivendichiamo allora l’orgoglio di essere famiglia. E la libertà di scegliere come spendere i nostri soldi ed educare i nostri figli. U­na libertà che solo un sistema fondato sulla sussidiarietà fiscale può garantire. Garantendo anche un futuro a questo Paese che ha il più basso tasso di natalità del mondo: così ri­piegato sul presente da dimenticare che esiste un futuro che abbiamo il dovere di contribuire a co­struire.
Giuseppe Matarazzo

Nasce a Sassari la prima casa-famiglia sarda
DA SASSARI MARIO GIRAU
Avvenire, 28.10.2007
S i chiama 'Penuel' (parola ebraica che significa a 'faccia a faccia con Dio') la Casa famiglia fondata a Sennori, cen­tro agricolo a 5 chilometri da Sassari, dal­la Comunità 'Papa Giovanni XXIII'. Un no­me biblico per indicare lo stile e la voca­zione di un luogo in cui la condivisione, l’apertura al prossimo e il sostegno vicen­devole sono il cristiano modo di essere di una famiglia che tiene sempre aperta la porta di casa ai poveri. È stato inaugurata e benedetta qualche giorno fa dall’arcive­scovo di Sassari, Paolo Atzei, e da don Ore­ste Benzi, fondatore dell’associazione. Papà e mamma di questa casa sono Nicolò De Vivo e Gavinuccia Nieddu. Dopo nove an­ni di matrimonio, tre figli e un quarto in af­fidamento, Nicolò e Gavinuccia iniziano un nuovo cammino. "Non partiamo al- l’avventura. Abbiamo sviluppato - spiega­no - un’esperienza con altre famiglie, ac­cogliendo ragazze madri, familiari di dete­nuti, persone con mille precarietà. Questa casa appena inaugurata risponde a un’esi­genza vocazionale, maturata all’interno della coppia e della famiglia, di una condi­visione piena, diretta e totale". Uno stile acquisito anche dentro la Cooperativa so­ciale 'San Damiano', che un gruppo di 25 persone da Sorso (vicino Sennori) ha lan­ciato nella galassia della Comunità 'Gio­vanni XXIII'. "Mi occupo - aggiunge Nicolò - del laboratorio di falegnameria, intaglio, corniceria e vetreria per la produzione di cornici su misura e montaggio vetri. Altri lavorano nel reparto serigrafia per la pro­duzione di autoadesivi, stampe su maglie e sughero, manifesti; altri ancora svolgono attività di apicoltura, giardinaggio; non manca la sezione per l’assistenza domici­liare ". Da questa cooperativa è nato un cen­tro di servizi diurno educativo e rieducati­vo per portatori di disagio: attualmente ac­coglie 20 adulti provenienti da sei comuni del Sassarese, alcuni dei quali inseriti an­che nei laboratori della cooperativa.Con questa casa-famiglia, la prima istitui­ta in Sardegna, aumenta il raggio d’azione della Comunità, che in quasi 9 anni di pre­senza nell’isola ha creato una rete di soli­darietà e testimonianza formata da 6 nu­clei familiari che accoglie 10 minori con gravi problemi fisici, 6 adulti extracomu­nitari e 5 adulti provenienti dalle carceri di Sassari e Oristano, accolti attraverso misu­re alternative alla detenzione. Vengono, i­noltre, affiancate e sostenute dai volonta­ri di don Benzi altre 10 famiglie non ap­partenenti all’associazione. "L’apertura della casa - aggiunge Antonello Spanu, re­sponsabile del centro diurno - ci consen­tirà di rispondere alle innumerevoli ri­chieste di accoglienza di persone in diffi­coltà e di radicare maggiormente nel terri­torio la nostra esperienza comunitaria, di­ventando risposta alle tante esigenze di persone che, per diversi motivi, non trova­no risposta".Il primo messaggio è già stato recepito dal­la comunità di san Basilio di Sennori. "La casa-famiglia - dice il parroco don Tore Ma­sia - è un segno forte dell’impegno che la chiesa mette nel servizio ai poveri: è una te­stimonianza d’amore resa a quanti hanno bisogno di aiuto materiale e spirituale. Per la parrocchia quest’esperienza ha un si­gnificato ancora più forte, perché affidata alle cure di una nostra parrocchiana".Da ieri 'Penuel', il nome dato da Giacob­be al luogo in cui combattè con l’Angelo del Signore, chiedendo poi di essere bene­detto da lui, si trova a Sennori.


"Addio, m’ammazzo per colpa del mutuo". Aumentano i suicidi
Aumentano suicidi e tragedie tra i debitori delle banche perché le rate dei finanziamenti immobiliari diventano sempre più pesanti. E intanto l’indebitamento per credito al consumo è cresciuto nel nostro Paese del 15% rispetto all’anno precedente…
di Stefano Lorenzetto
Aumentano suicidi e tragedie tra i debitori delle banche perché le rate dei finanziamenti immobiliari diventano sempre più pesanti. Il costo del denaro sale, il 91% dei prestiti è a tasso variabile. E i pignoramenti, che sono il 3,5% dei tre milioni e mezzo di contratti, si impenneranno al 19% Un mese e mezzo fa, nel Nord Est apparentemente assai benestante, a 500 metri in linea d’aria dalla casa in cui sono nato, un marocchino di 30 anni ha ucciso per strada la compagna, vibrandole otto coltellate sotto gli occhi dei passanti. Movente del delitto: la rata mensile, 700 euro, del mutuo trentennale di 140.000 euro che insieme avevano acceso per l’acquisto di un appartamento. Lei, una vedova con due bimbe a carico, non riusciva a pagare la sua parte. Se 40 anni fa qualcuno avesse detto a mio padre, a me o a un qualsiasi abitante di quel quartiere che un giorno sarebbe accaduto un fatto simile, nessuno ci avrebbe creduto. Per il semplice motivo che le case allora erano appannaggio dei sióri e i poaréti, tuttalpiù, potevano ambire ad averle a pigione.La scorsa settimana, a Tolentino, 450 chilometri più a sud, un lavoratore modello di 43 anni s’è impiccato nel magazzino aziendale, lasciando un figlio di 9 da crescere. La moglie ha raccontato in lacrime ai carabinieri che il marito era molto preoccupato per un mutuo di 50.000 euro, con rate mensili di 500 euro, ottenuto da una banca per comprarsi un’abitazione. Forza Nuova ha annunciato che denuncerà per istigazione al suicidio i responsabili dell’istituto di credito. Tragedie simili un tempo si contavano sulle dita di una mano. Per restare all’ultimo decennio: un operaio di Adrano (Catania) suicida con i gas di scarico della Fiat 850 per un mutuo da 40 milioni di lire; una donna di Adelfia (Bari), madre di quattro figli, con la gola squarciata perché la pensione del marito non bastava più a pagare le rate mensili sempre più onerose; un commercialista di Napoli, padre di due figli, a capofitto nella tromba delle scale pochi mesi dopo aver ricevuto da un istituto di credito un prestito di 200 milioni di lire per la casa. A Verona, la ricca città dove il marocchino ha trucidato la convivente, vi sono attualmente 1.341 alloggi sotto pignoramento. Un numero che fa allargare le braccia persino ai cancellieri del tribunale: "Mai visto nulla del genere". Tecnicamente si chiamano "esecuzioni immobiliari pendenti": in una sola mattinata si è arrivati a 19. La maggior parte dei capifamiglia coinvolti hanno tra i 25 e i 40 anni, dato anagrafico compatibile con una visione forse troppo baldanzosa della vita. Impossibilitate a pagare le rate del mutuo, l’anno scorso 946 famiglie sono state private della loro casa, con l’aggravante d’aver visto andare in fumo tutti i risparmi investiti. Nel 2000 il numero degli immobili messi all’asta per lo stesso motivo non superava le 100 unità. Ne consegue che in sei anni i pignoramenti sono aumentati dell’846%. Un’ecatombe. Prendo per buoni i dati dell’Adusbef (Associazione difesa consumatori utenti bancari, finanziari e assicurativi), anche se detesto il tono declamatorio con cui il suo presidente, Elio Lanutti, si affaccia a giorni alterni nei telegiornali per sillabarceli: in Italia le procedure immobiliari o i pignoramenti sono pari al 3,5%, quindi oltre 120.000 su 3,5 milioni del totale dei mutui, ma destinati ad aumentare del 19% a causa dell’insostenibilità delle rate, visto che la quasi totalità dei prestiti – il 91%, per essere esatti – sono stati concessi a tasso variabile e quindi soggiacciono all’andamento sfavorevole del costo del denaro. Quello della casa non è che l’aspetto più macroscopico di un’emergenza sociale ed economica che comincia a impensierire (alla buonora!) le autorità. Lunedì scorso un vertice con i prefetti di Veneto, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, come dire il gotha delle regioni a reddito più elevato, presieduto a Venezia da Ettore Rosato, sottosegretario agli Interni, s’è concluso con un allarmato avvertimento di Guido Nardone, rappresentante del governo nella città lagunare: "La spesa a rate è molto pericolosa, dà l’illusione alla gente di potersi permettere ogni cosa. Le famiglie si stanno indebitando fino all’osso". Per acquistare la casa? Macché. Roberto De Marco, responsabile veneto del settore risparmio di Federconsumatori, sta seguendo il caso di un centinaio di persone che in provincia di Treviso avevano sottoscritto un prestito di 500 euro con una finanziaria per l’abbonamento annuale alla palestra. Oltre alla forma fisica, si acquistano a rate la Tv al plasma, le vacanze, i mobili, gli elettrodomestici, i computer. E l’auto, naturalmente. Siamo arrivati all’assurdo per cui a un giornalista del Corriere del Veneto, che voleva pagare in contanti una vettura di media cilindrata, il concessionario di una nota casa europea ha insistito per proporre invece il finanziamento. "Se l’agente preferisce vendere a credito, vuol dire che certamente ha un guadagno maggiore. E di riflesso che lui, o la casa madre, stanno tentando di vendermi un secondo prodotto", è il commento del collega. Temo che si tratti della stessa casa automobilistica che ha convinto le finanziarie a inventare per i nuovi ricchi del Nord Est un mutuo così strutturato: villa di rappresentanza finto palladiana con inclusa una berlinona da 100.000 e passa euro. Mica si può farli tornare a casa la sera col ghiaino del viale d’ingresso che crocchia sotto le ruote di una Hyundai, vi pare? "Compri oggi e cominci a pagare fra un anno" è l’esatto contrario, a pensarci bene, di ciò che facevano i nostri padri, che risparmiavano ogni giorno nella speranza di potersi permettere qualcosa – la prima stufa a gas, la prima lavatrice, il primo televisore – dopo due o tre anni. Una casa, quando andava bene, dopo 30. Allora vogliamo dirla chiara e tonda? Abbiamo fatto gli americani senza esserlo. Il paradosso è che persino gli americani sono in difficoltà: in un anno il numero delle abitazioni pignorate negli Stati Uniti è raddoppiato. Secondo una recente indagine della Cgia di Mestre (roba seria), l’indebitamento per credito al consumo è cresciuto nel nostro Paese del 15% rispetto all’anno precedente. Ogni famiglia ha mediamente obblighi per 13.000 euro (erano 12.300 nel 2005 e 10.500 nel 2004). In un quadriennio gli italiani hanno quasi raddoppiato il ricorso ai finanziamenti per le loro spese più o meno voluttuarie, passando dai 45 miliardi di euro nel 2002 ai quasi 90 nel 2006. È anche vero, come mi ha spiegato Ettore Gotti Tedeschi, presidente della Santander Consumer Bank, che "il credito al consumo non è che un mezzo, uno strumento utile come il coltello a tavola, bisogna solo imparare a usarlo" e che "ci sono coppie di giovani che non si sposerebbero se non potessero pagare a rate l’arredamento". Ma qui è venuto il momento d’insegnare alla gente il modo corretto d’impugnarlo, questo coltello. Altrimenti temo che finirà per essere usato sempre più spesso in circostanze come quelle descritte all’inizio. Nella fabbrica di Giancarlo De Bortoli, un piccolo imprenditore tessile di Pramaggiore (Venezia), un terzista che produce per Jil Sander e per Gucci, uno sgobbone che ha ancora i piedi per terra e che s’è mangiato due case (sue) pur di tener testa alla delocalizzazione selvaggia, ho avuto la sorpresa di trovare appesa alla parete, incorniciata, una pagina dei Tipi italiani del 19 marzo 2006. Era l’intervista con Eugenio Benetazzo, trentaduenne trader professionista, cioè operatore di Borsa indipendente, che annunciava "un mutamento epocale senza precedenti". "Ci siamo!", testimonia De Bortoli. "I miei dipendenti non ce la fanno più. Sono indebitati fin sopra la punta dei capelli. Basta che in famiglia qualcuno abbia bisogno di cure dentarie ed è la rovina. Vengono a piangere nel mio ufficio. Che devo fare? M’invento una gratifica, gli anticipo lo stipendio o la tredicesima. Fin che posso... Ma ormai sono io stesso a un bivio: a fine mese o preparo le buste paga o verso i contributi. Mi dica Prodi quale delle due".Allora avevo definito Benetazzo "il Beppe Grillo dei poveri". Oggi devo riconoscere che molte delle sue funeree previsioni si sono puntualmente avverate. A cominciare da questa, raggelante: "Nei prossimi nove mesi il costo del denaro è destinato a salire dal 2,50% al 3,50%. Chi ha un mutuo a tasso variabile sulla prima casa cammina sull’orlo di un burrone. Nessun giornale lo ha scritto, ma in Giappone vi è stato un aumento del 35% dei suicidi: le vittime sono capifamiglia che, in seguito al rialzo dei tassi, non riescono a onorare il debito con la banca neppure vendendo l’immobile per cui hanno chiesto il prestito". Ebbene, in 19 mesi il costo del denaro è salito addirittura al 4%, il che significa che su un mutuo integrale per 100.000 euro i rialzi dei tassi hanno comportato interessi aggiuntivi, non pianificati in fase di rogito, per 1.500 euro l’anno: è come se fosse sparito da tanti bilanci familiari un intero stipendio mensile. Gli interessi sui mutui a tasso variabile sono aumentati da quel marzo 2006 di oltre il 60%.Aggiunse Benetazzo: "Sa quale importo arriva a concedere un istituto di credito veneto al cliente che si presenta a chiedere un mutuo per l’acquisto della prima casa? Il 120%. Non sto scherzando. Ti comprano loro l’abitazione e in più ti offrono un 20% per le spese notarili, i mobili, la tinteggiatura, il trasloco e anche per la cassa da morto, aggiungo io". Macabro. Ma profetico. Ho controllato ieri: questa banca continua a offrire un prodotto che si chiama Mutuotutto Trasgressivo. L’aggettivo mi sembra appropriato. Al pari dello slogan con cui viene reclamizzato: "Abbiamo esagerato: finanziamo la tua casa fino al 120%!". Il simbolo del mutuo è un sandwich a quattro piani. Poi non bisogna stupirsi se qualcuno ci si strozza. stefano.lorenzetto@ilgiornale.itIl Giornale n. 255 del 2007-10-28


A VIENNA LA PRIMA FIERA MONDIALE DEL DIVORZIO
Quante energie per rompere Il consumismo seppellisce le nozze

UMBERTO FOLENA
Avvenire, 28.10.2007
" I l giorno più bello della tua vita?
Quello del tuo divorzio". Purché, premette Anton Barz, "la cosa avvenga in modo amichevole".
Aggiungiamo: professionale. A tal fine Barz, che organizza a Vienna la prima fiera mondiale del divorzio, mette a disposizione i migliori esperti sul mercato: dagli investigatori privati che spiegano perché è utile e ragionevole spiare la propria moglie o il proprio marito, agli avvocati con i loro consigli su come divorziare senza inutili conflitti; dagli psicologi che suggeriscono come rendere la cosa meno dolorosa possibile per i parenti e gli eventuali figli, al medico legale esperto in test di paternità. Infine, alla fiera ci saranno anche gli agenti patrimoniali, perché se finisce il matrimonio non finisce certo l’amore, anzi la fiera si chiama "Nuovo inizio".
Che il divorzio fosse un formidabile business e contribuisse all’impennarsi del Pil già lo sapevamo. E anzi abbiamo sempre avuto il sospetto che i primi a gufare contro Pacs, Dico, Cus e simili fossero loro, quanti si arricchiscono nel dissolvere legami indissolubili. Per attirare i clienti, ci sta pure che venga fatto balenare il miraggio del "giorno più bello della tua vita", più del matrimonio; più di quando è nato tuo figlio; più dello scudetto vinto dalla tua squadra in barba a Juve-Milan­Inter.
Tutto è mercato e profitto. E i potenziali clienti sono un esercito.
Nell’Unione europea avviene una separazione ogni 33 secondi e in Italia c’è un divorzio ogni 4 minuti. Quanto al signor Barz – "felicemente sposato" fa sapere: la fiera dunque non lo riguarda direttamente – non è certo il primo a provare ad arricchirsi. In Germania, da un anno l’ex agente assicurativo Bernd Dressler s’incarica, dietro lauta parcella, a informare sposi e amanti che il partner non li vuole più. "Terminator dell’amore" lo definirono i giornali. Un vero killer: nei primi due mesi di frenetica e benemerita attività, aveva recapitato ben 120 avvisi di abbandono.
Mercato: Dressler ha capito quanto scomodo e imbarazzante sia dire addio al proprio partner, e quanto possa essere conveniente affidarsi a personale specializzato.
Poiché è meno stressante farsi lasciare che lasciare, ma trovarsi l’amante e farsi scoprire è stressante il doppio, sempre un anno fa a Londra l’artista Björn Franke ha presentato l’" Imaginary Affair Kit ", una valigetta contenente segni di morsi, tracce di rossetto, capelli, profumo… insomma tutto l’occorrente per simulare un rapporto clandestino. Quanto ai figli, è uscito anche in Italia il libro " Save the Children " scritto, almeno così vogliono farci credere, dalla piccola Libby Rees, anni 10, contenente consigli ai coetanei per sopravvivere al divorzio dei genitori. Il libro aiuta i figli, forse; di sicuro ha procurato tante soddisfazioni a chi si è goduto i diritti d’autore.
Nessuno stupore per la fiera che c’è, dunque. Semmai stupore per la fiera che non c’è. Quella che non si affretta a seppellire i matrimoni, ma cerca di tenerli in piedi. Perché si investono senza parsimonia energie per sciogliere un legame, e non si fa quasi nulla per salvarlo, superando le crisi grandi o piccole e renderlo magari più saldo? Il sospetto è che la consumerist society ci abbia colonizzato perfino nei più profondi anfratti dell’anima. Bisogna consumare, non conservare. Gettare e cambiare, non riparare. Movimentare desideri, capricci e denaro. Le lacerazioni, i rimpianti, i dolori disseminati qua e là? Danni collaterali, signori. Non si può fare una frittata senza rompere le uova.
Ecco, questa immagine del rompitore d’uova è la conclusione adeguata per un articolo su Barz e la sua fiera.


Paolo Pezzi ordinato a Mosca
DAL NOSTRO INVIATO A MOSCA
Avvenire, 28.10.2007
" D a oggi sei a capo di una Chiesa molto giovane che ha solo sedici anni ed ha bisogno di cure paterne. Ma tu sei forte, soprattutto nello spirito. Sei figlio del movimento di don Giussani, un uomo santo, e della Fraternità sa­cerdotale di San Carlo, chiamati a por­tare in tutto il mondo la verità e la bel­lezza di Cristo". È l’omaggio com­mosso e affettuoso che monsignor Ta­deusz Kondrusiewicz rivolge a mon­signor Paolo Pezzi durante la sua con­sacrazione episcopale. Il Papa ha vo­luto che ad imporre le mani al nuovo arcivescovo della diocesi di Mosca fos­se il suo predecessore, in una cerimo­nia suggestiva e carica di simbolismi. A cominciare dal luogo dove ieri po­meriggio è avvenuta la consacrazione, la cattedrale dell’Immacolata Conce­zione, una magnifica chiesa neo-goti­ca d’inizio Novecento, in mattoni ros­si, tornata al suo splendore da pochi anni, dopo che in epoca sovietica ven­ne ridotta a magazzino. Sotto le ampie arcate risuona l’antico canto slavo "M­nogaia Leta", Ad multos annos, e s’al­ternano il russo, il latino, l’italiano."La Provvidenza ti ha mandato nella terra dove c’è gran bisogno di pro­muovere il dialogo ecumenico – dice ancora Kondrusiewicz – Chiesa catto­lica e Chiesa ortodossa hanno le stes­se opinioni riguardo alle sfide del se­colarismo e del relativismo e devono unire le loro forze".In prima fila siede la delegazione or­todossa capeggiata dal numero due del Dipartimento degli esteri del Pa­triarcato, Vsvelod Chaplin, che legge il messaggio indirizzato da Alessio II al neo-arcivescovo di Mosca nel segno del dialogo e della "rapida soluzione dei problemi che esistono ancora tra noi". Nella cattedrale, gremita di mi­gliaia di fedeli, ci sono rappresentanti politici e diplomatici fra i quali l’am­basciatore italiano Claudio Surdo. C’è la Chiesa della Federazione russa, rap­presentata dai suoi quattro vescovi e da decine di sacerdoti, quasi tutti vol­ti giovanili che testimoniano la pri­mavera della comunità cattolica nel­l’ex Unione sovietica. Dall’Italia sono arrivati in duecento tra familiari, ami­ci e religiosi. Foltissima la delegazione di Comunione e liberazione, presen­te con il suo intero stato maggiore a cominciare dal leader, don Julian Carròn. Ci sono molti sacerdoti della Fraternità San Carlo guidati dal re­sponsabile, don Massimo Camisasca, e c’è la gente di Russia Cristiana con il fondatore, l’anziano Padre Romano Scalfi che appare felice come un bam­bino. "Don Paolo sembra straniero ma in realtà, in tutti questi anni, è diven­tato parte della Russia" dice il nunzio, monsignor Antonio Mennini. Lui, il neo-arcivescovo di Mosca, ringrazia tutti e con grande spontaneità ricorda che "dal cielo è presente anche don Giussani che, come direbbe Péguy, se la ride dentro di sé, e forse anche fuo­ri ". Luigi Geninazzi



"Un’icona di Rubliov, segno profetico nella mia storia"

DAL NOSTRO INVIATO A MOSCA LUIGI GENINAZZI
Avvenire, 28.10.2007
È sempre stato un pioniere e adesso viene chiamato a guidare la carovana. Monsignor Paolo Pezzi ha girato la Russia in lungo e in largo per oltre dieci anni prima di essere nominato arcivescovo a Mosca. 47 anni, ha conservato la schiettezza e la serenità della natìa Romagna."Nella semplicità del mio cuore offro tutto al Signore che mi farà vedere il suo popolo crescere come a Lui piace", sono le parole che ha pronunciato subito dopo la sua consacrazione episcopale. In quest’intervista ci dice chi è e cosa pensa di fare sul fronte dell’Est.
Eccellenza, lei è il primo italiano ad essere ordinato vescovo in Russia e per la Russia. Non è mai successo nella storia della Chiesa...
A dire il vero non ci avevo mai pensato. Non mi vedo nei panni di chi batte un record!
Anzi, sono ancora pieno di stupore per quel che mi è successo. Conosco e amo la Russia, ma non sono certo uno specialista in materia. Provo un sentimento d’infinita gratitudine verso la Chiesa che ha avuto il coraggio di scegliere uno come me. E sono specialmente grato al Papa perché questa mia nomina è un po’ il riconoscimento della bellezza e della vivacità dell’esperienza di fede che vive la Fraternità sacerdotale di San Carlo cui appartengo.
Come le è venuta l’idea d’andare in Russia?
È un’idea che non ho avuto io, me l’hanno chiesto. Anche se fin da ragazzo ero attratto dalla liturgia e dalla letteratura russa così come venivano presentate da don Giussani. E quando sono diventato sacerdote gli amici mi hanno regalato una copia dell’icona del Salvatore di Rubliov che da allora porto sempre con me. Ripensandoci adesso lo vedo come un segno profetico. Il mio primo viaggio in Russia fu nel ’91, quando accompagnai don Massimo Camisasca a Novosibirsk, su invito di un prete lituano che lavorava in Siberia. L’anno dopo fu chiesto alla nostra Fraternità d’inviare un sacerdote al posto di uno che era dovuto tornare a casa per motivi di salute. La scelta cadde su di me.
Lei ha sempre detto che l’incontro con i cristiani in Siberia l’ha segnata profondamente. Come mai?
Ricordo sempre gli incontri con alcune babushke, le nonne che hanno saputo conservare la fede nei lunghi decenni della persecuzione comunista. Un giorno domandai a un’anziana signora cui avevano ucciso tutti i figli cosa pensasse di Stalin. E lei: io Stalin l’ho perdonato, altrimenti non avrei più potuto vivere. Era d’origine tedesca, viveva nel gelo siberiano. Era la dimostrazione sconvolgente che la fede risponde ai bisogni dell’uomo qualunque sia la sua storia o la sua nazionalità.
La comunità cattolica in Russia è una "Chiesa straniera"?
Non lo penso e non lo desidero. Chi vive un’esperienza di fede si sente a casa in ogni luogo. Il fatto poi che nella comunità cattolica della Russia ci sia una forte componente locale rafforza quest’idea. Certo, ci sono molti fedeli d’origine straniera. Ma guai se la Chiesa cattolica s’identificasse con una nazionalità.
Quali sono le sue priorità pastorali?
Grazie alla mole di lavoro svolto dal mio predecessore che dovette partire da zero, mi ritrovo fortunatamente delle strutture ecclesiastiche ben stabilite. Ritengo che il mio compito sia soprattutto quello dell’educazione della fede, nel senso d’approfondire la coscienza di quel che comporta l’essere cattolici in Russia. Questo significa un’apertura sincera alla tradizione orientale di cui la Chiesa ortodossa è testimone. E un’apertura al Paese, coinvolgendoci di più nella vita sociale, culturale e politica della Russia.
Dopo le nubi sta tornando un po’ di sereno nei rapporti con la Chiesa ortodossa. A quali criteri-guida intende affidarsi?
Non dobbiamo avere paura d’impegnarci nel dialogo sui valori cristiani. A differenza dell’Occidente qui, quando si parla di valori, non li si percepisce staccati dalla loro origine, dall’avvenimento di Cristo. In questo c’è una profonda sintonia tra la posizione di Benedetto XVI e quella della Chiesa ortodossa. Mi è stato ribadito recentemente anche dal metropolita Kirill durante l’incontro molto cordiale che ho avuto con lui. Certo, nel dialogo verranno fuori anche le differenze ma non ne dobbiamo aver paura. Sono comunque una ricchezza. Questa è stata la mia esperienza. Non a caso ho scelto come motto episcopale "Gloriae Christi passio", passione alla gloria di Cristo.
Come reagisce davanti alla parola-tabù proselitismo?
Il proselitismo inizia quando finisce la missione. Quando cioè finisce l’impeto della testimonianza e subentra l’idea del possesso, la voglia d’allargare la propria sfera d’influenza.
Mentre l’annuncio di Cristo è gratuità assoluta.
Si parla di un possibile incontro tra Benedetto XVI ed il Patriarca Alessio II. Possiamo dire che è il sogno del nuovo arcivescovo di Mosca?
Guardi, il mio sogno è di essere in sintonia con il cuore del Papa. Il suo desiderio più grande è quello di rimuovere gli ostacoli sulla via della piena unità fra le due Chiese. Se un giorno incontrerà il Patriarca Alessio sarà dentro questa prospettiva.


26/10/2007 MYANMARAutorità buddiste: rifiutate le offerte dei militari
Per la fine del digiuno buddista, la giunta ha assoldato finti monaci che accolgano i loro doni. I responsabili dei monasteri hanno invece chiesto a tutti i bonzi di non accettare alcuna offerta dalle autorità, pena la "scomunica". Il ministro per la Religione chiede ai monaci di "comprendere" le ragioni della repressione.
Yangon (AsiaNews) – Continua la lotta silenziosa dei monaci buddisti contro la dittatura in Myanmar. Dopo la violenta repressione delle manifestazioni di piazza di settembre guidate dai bonzi, sembra quasi che il movimento pacifico contro il regime sia stato messo a tacere. Non è così. Il rifiuto dei monaci di accettare dai militari le tradizionali offerte, prima iniziativa di dissenso verso la politica della giunta, è sempre continuata anche durante queste settimane. E proprio "oggi risalterà in tutta la sua forza". Ne sono convinti alcuni abitanti e attivisti di Mandalay contattati da AsiaNews.
Oggi in Myanmar si celebra l’annuale giornata dell’"offerta del riso" (Tha Din Gjut), giorno che segna la fine del mese di digiuno buddista. Per l’occasione i fedeli sono soliti donare ai religiosi nuove vesti rosse, ombrelli, cibo e altri oggetti di uso quotidiano. Ogni offerta porta il nome del donatore e vengono raccolte in pubblico. Ma quest’anno nessuno accetterà le donazioni che arrivano dai militari, riferiscono le fonti d AsiaNews. Un avviso di alcuni giorni fa diffuso dai responsabili di diversi monasteri nel Paese ha infatti avvertito che "chiunque accetterà offerte dai militari sarà disconosciuto", una sorta di scomunica buddista. Molti bonzi hanno già rifiutato di recarsi alle funzioni di Stato.
I militari, preoccupati che si possano così riaccendere gli animi, hanno tentato di strumentalizzare l’evento ai fini della loro propaganda interna. Almeno da due giorni, in vista delle festività, stanno reclutando monaci che partecipino alle cerimonie organizzate dallo Stato e che accettino pubblicamente le offerte elargite dai soldati. Lo scorso 14 ottobre a Mandalay – raccontano alcuni abitanti – si è svolta una cerimonia ufficiale di offerta a cui erano presenti oltre 400 monaci; il fatto ha avuto molto spazio sui media locali. Ma la popolazione è convita che i militari abbiano costretto i religiosi a partecipare oppure abbiano addirittura assoldato una sorta di comparse. "Ci vuole poco – dicono – a far sembrare un semplice cittadino un monaco: basta rasarlo e fargli indossare un abito rosso".
Il fine è quello di far credere alla nazione che i bonzi sono dalla parte del governo e che quelli scesi in piazza erano solo poche teste calde. Lo confermano le parole del ministro birmano per la Religione, Thura Myint Maunt, che ieri ha tenuto un raro discorso davanti ad alcuni bonzi. Il quotidiano governativo The New Light of Myanmar, riporta che il ministro ha chiesto ai religiosi buddisti di "comprendere" le ragioni che hanno spinto alla violenta repressione del mese scorso. Myint Maunt ha spiegato che le autorità hanno dovuto agire contro "monaci falsi, che hanno incitato la folla" spinti dal "presidente americano George W. Bush". Egli ha poi chiesto scusa se negli arresti sono stati presi anche alcuni monaci innocenti.
Secondo dati ufficiali, la violenza usata per sedare le proteste pacifiche di fine settembre contro il regime ha causato 10 morti e 3mila persone arrestate, di cui la maggior parte già rimesse in libertà. Fonti diplomatiche e di gruppi per i diritti umani parlano, invece, di centinaia di vittime e oltre 6mila arresti e dell’esistenza di un almeno un forno crematorio fuori Yangon in cui le autorità gettavano manifestanti morti o solo feriti per occultare il numero reale delle vittime della repressione.


LETTERATURA. Gli ultimi giorni del poeta-sacerdote nella sua "cella" di Stresa: la testimonianza di Giovanni Giudici 50 anni dopo La "Passione" di Rebora
DI GIOVANNI GIUDICI
Avvenire, 27.10.2007
Sono passati pochi giorni da quando sono andato a trovare Clemente Maria Rebora al Collegio rosminiano di Stresa dove il vecchio poeta ormai da più di un anno prega e soffre nel letto della sua infermità e sembra in questa vigilia della morte aver ritrovato come una primavera di poesia, una stagione feconda, pari forse in intensità e risultati a quella del periodo vociano che, negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, portò la sua esperienza poetica a posizioni di primissimo piano nelle lettere italiane. La voce fisica di Don Clemente è quasi spenta: da più di un anno non dice più Messa, da più di un anno è inchiodato al letto, alternando a momenti di relativo sollievo momenti di sofferenza e quasi d’agonia; ma in un anno sono usciti tre piccoli libri suoi: il Curriculum vitae, i Canti dell’infermità, ed ora Gesù il fedele. Il Natale, tutti curati da Vanni Scheiwiller che: alla nitidezza formale delle sue edizioni, ha saputo unire in questa circostanza il merito non indifferente di riportare all’attualità dell’interesse culturale un’opera di poesia destinata a rimanere quasi integralmente nel patrimonio della storia letteraria del secolo.Ma detto questo, per quanto deciso e impegnato sia il mio sforzo di alienazione, di indifferenza, non riesco a parlare di don Clemente come dell’Autore, dell’astratta entità anagrafica alla quale di solito riportiamo l’emozione proveniente dalla lettura di un testo; non posso sezionare sul tavolo anatomico della pagina bianca i suoi versi senza soffermarmi sul ricordo di quella sua figura, di quel viso vibrante di uomo giovane, scoperto non senza sulla vetta di una giornata di nebbia nella sua cella, nel collegio di Stresa che è in alto, ma dalla cui altitudine non si vedevano né il Lago Maggiore né le Isole Borromee, forse perché nulla d’altro mi distraesse dalla osservazione intensa della sua persona.Era disteso sul letto, vestito per ciò che ne restava scoperto di un maglione grigio di foggia un po’ militare, stringeva continuamente tra e mani un crocefisso di legno e alternava, ai discorsi di chi gli stava intorno, un pianto silenzioso e desolato a splendenti sorrisi di fanciullo. (Quella sua faccia incredibilmente giovane: capisco come Eugenio Montale abbia potuto scrivere di lui or non è molto: "Non lo vedevo da più di vent’anni e non lo trovo quasi affatto mutato").Ciò che Rebora vede dal "letto della sua infermità" (così sono datate tutte le poesie - molte! - di questo periodo) è il breve al di là di una finestra: un alto salice nel giardino del Collegio, i voli dei passeri infreddoliti.Sotto le coltri, alla sua destra, custodisce il suo elementare scrittoio, il breviario, un taccuino sgualcito, una matita.Il poco che riesce a scrivere lo scrive; il più lo ripete, lo ripete all’infinito sillabando dentro di sé, lo ripete con un filo di voce, che si fa a volte impercettibile movimento di labbra, ai confratelli che lo assistono, a Renzo Grippi, un laico rosminiano, che è un po’ il suo segretario e al quale molto si deve se i frutti di questo terzo tempo reboriano non sono andati dispersi.Quando le crisi del male lo consentono non passa giorno o quasi, senza che don Clemente affidi alle sue note o a quelle di chi gli sta accanto un pensiero, un’immagine, una poesia: "Non potendo celebrare il Sacrificio della Messa - egli dice - Dio mi concede di celebrare ogni giorno il Sacrificio della Croce". E da questo sacrificio nascono appunto i suoi versi di oggi: "A Verità condusse Poesia" poté egli giustamente scrivere rievocando nel Curriculum vitae i momenti della sua grande (ma non clamorosa, quasi segreta, in perfetta umiltà) conversione; ma ormai, dopo il silenzio ventennale, potrebbe ben rovesciare i termini della frase, come testimoniano i Canti e, più recente, Il Natale, dove ogni verso è un grido di pietà cristiana, dove tutto il movimento è un movimento di grazia, dove l’immagine poetica è spesso immagine di certezza metafisica. È una poesia, questa, che sarebbe impossibile senza una fede, che senza fede non riuscirebbe a quell’ardore di carità che la contraddistingue.Ma non si creda che questa trinità di virtù teologali di cui la poesia reboriana vive e s’alimenta, sussista (e non potrebbe) disgiunta dalla concretezza di una esperienza umana e fisica delle più severe; ché nei Canti giungiamo fino a trovare la testimonianza diretta di una condizione personale ("Terribile ritornare a questo mondo - quando già tutte le fibre - erano tese a transitare! ­E il corpo mi rifiuta ogni servizio - e l’anima non trova più suo inizio. - Ogni voler divino e sforzo nero. - Tutto va senza pensiero: l’abisso invoca l’abisso").Toccherà certo al critico, allo storico di domani, il compito di sistemare questa poesia di Rebora in un particolare solco dei molteplici solchi culturali che la tradizione europea, la tradizione occidentale, ci offre, e ad uno dei quali inevitabilmente appartiene ogni poeta nato e nascituro; ma di fronte al caso Rebora, lasciando ovviamente da parte la commossa ammirazione per l’uomo, a venerazione per la sua esemplare vicenda; dobbiamo certamente prender atto della presenza nella sua poesia di un impegno cristiano non scaduto (sono perfettamente d’accordo con Giorgio Caproni) nell’engagement, ossia di un caso di poesia di ispirazione religiosa in cui la religione non è fatto occasionale ma condizione determinante. "Era disteso sul letto e stringeva continuamente un crocefisso di legno. Affidava a voce un pensiero, una poesia..."


Ratzinger: la Nona di Beethoven, inno alla gioia che viene da Dio
Avvenire, 28.10.2007
Con un convinto e caloroso ap­plauso il Papa ha sottolinea­to ieri sera l’esecuzione della IX Sinfonia di Ludwig van Beethoven da parte dell’Orchestra Sinfonica e del Coro della Radio della Baviera. Al termine del concerto in suo onore nell’Aula "Paolo VI" Benedetto XVI ha poi commentato con sensibilità teo­logica e pastorale e competenza mu­sicologica il capolavoro che il grande compositore tedesco scrisse quando era ormai completamen­te sordo. "La solitudine silenziosa – ha sottoli­neato Papa Ratzinger – a­veva insegnato a Beetho­ven un modo nuovo di a­scolto che si spingeva ben oltre la semplice ca­pacità di sperimentare nell’immaginazione il suono delle note che si leggono o si scrivono". Emerge così "una percettività che riceve in dono chi da Dio ottiene la grazia di una li­berazione esterna ed interna". Di conseguenza "il travolgente senti­mento di gioia trasformato qui in mu­sica (il famoso 'Inno alla Gioia') è un sentimento conquistato con fatica, superando il vuoto interno di chi dal­la sordità era stato spinto nell’isola­mento ". E perciò, ha concluso il Pa­pa, "la vera gioia è radicata in quella libertà che solo Dio può donare. Egli – a volte pro­prio attraverso periodi di vuoto e di isolamento in­terni – vuole renderci at­tenti e capaci di 'sentire' la sua presenza silenzio­sa non solo 'sopra la vol­ta stellata', ma anche nell’intimo del nostro a­nimo ".


HALLOWEEN e zucche vuote
di Antonio Fasol

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