lunedì 5 novembre 2007

Don Oreste Benzi - rassegna stampa a cura di Giorgio Razeto

«La sua spiritualità? Tutta nel sorriso»
Il suo braccio destro: don Oreste è stato un contemplativo sempre in azione

Avvenire, 4.11.2007
DI MATTEO LIUT
I l simbolo più evidente della grande spiritualità di don Oreste Benzi? «Il suo sorriso. Che era immagine della sua profonda umanità e di una serenità radicata nel­l’intimità con Dio. Quel sorriso che anche ora gli è rima­sto sul volto». In questo tratto, allo stesso tempo sempli­ce e incisivo, Paolo Ramonda, vicepresidente dell’Asso­ciazione Papa Giovanni XXIII, indica la cifra più autenti­ca del profilo spirituale di don Oreste.
Quando vi siete incontrati la prima volta?
Era il 1980, io avevo scelto di fare il servizio civile al posto di quello militare. Mi avevano parlato di don Oreste, quin­di andai a Rimini per conoscerlo. Il nostro incontro av­venne in un salone della parrocchia della Risurrezione, dove fui accolto da un sacerdote impegnatissimo. Mi a­scoltò in pochissimo tempo e quasi di fretta, eppure riu­scì a trasmettermi una proposta precisa che era quella di Cristo: vieni e seguimi, dai la tua vita ai poveri.
La radicalità per lui è sempre stata una costante?
Sì, assieme a un’estrema dolcezza nell’avvicinare le per­sone, alle quali proponeva con cristallina determinazio­ne la sequela di Cristo.
Cosa avete condiviso in questi anni?
Don Oreste per noi è stato una guida sicura, un maestro che ci riportava sempre all’unico maestro, che è Cristo, pur riuscendo a comunicarci il suo specifico carisma. Ci diceva sempre «Cristo è una persona viva, non è una filo­sofia o un’ideologia». In questa visione si inserisce la scel­ta della preghiera, che non può essere sentimento ma a­desione consapevole. Una scelta anche scomoda, perché spesso un padre o una madre, magari con figli naturali e accolti, devono conquistarsi questo spazio della preghie­ra. «Se ami, cerchi l’amato e fai di tutto per incontrarlo», ci diceva, riferendosi a Cristo.
Come vive la comunità questa dimensione nella sua vi­ta?
La vita della comunità è fortemente immersa nel mondo e nei problemi della gente. Come unica famiglia spiritua­le, ci sentiamo continuamente interpellati da questa u­manità che soffre. Ma la nostra attività necessita di stare cuore a cuore con Cristo, come don Oreste ci chiedeva: per questo nelle nostre case c’è sempre lo spazio per la Paro­la o per l’Eucaristia, ad esempio in una cappellina. In que­sti anni ci siamo nutriti della Parola anche attraverso i commenti di don Oreste al Vangelo del gior­no, intitolati «Pane quotidiano». A questa at­tenzione particolare aggiungiamo la piena partecipazione alla vita della Chiesa, delle parrocchie e delle diocesi in cui ci troviamo.
Che rapporto aveva don Oreste con la li­turgia?
Era un innamorato dell’Eucaristia: tutti po­tevano vedere la cura e l’amore con cui ce­lebrava. Eppure la sua era una liturgia «di popolo», chi andava alla sua Messa il saba­to alla Grotta Rossa aveva davvero davanti a­gli occhi il popolo di Dio riunito: nessuno e­ra escluso. In mezzo a questo popolo don O­reste riusciva a gustare la presenza di Cristo e a farla gustare ai presenti. Coltivava, poi, la Liturgia delle ore con estrema fedeltà: se gli impegni gli impedivano di pregare, capi­tava anche che usasse le poche ore di son­no per stare sul breviario. A tutto ciò si ag­giungeva l’amore per la Parola di Dio, che puntualmente 'spezzava' per noi con una semplicità accessibile a tutti. E infine l’amore per Maria, che lui chiamava «Madre dei poveri», «Fiducia nostra»: a lei si rivolgeva affidandole tutte le situazioni più difficili e le persone più sofferenti, dicendole, in tono con­fidenziale, «vediamo come te la cavi, sono anche figli tuoi».
E come viveva il rapporto con le gerarchie?
Don Oreste è stato un rivoluzionario: diceva che non dob­biamo dare assistenza o consolazione ai poveri perché es­si hanno bisogno di giustizia, di una rivoluzione pacifica e non violenta, ma capace di dare loro nuove possibilità. Una visione che portava anche nella Chiesa; però, di fron­te ai vescovi, ci ha sempre insegnato l’obbedienza. Ci in­vitava al dialogo, a portare il nostro parere, ricordandoci che il dono della conferma del discernimento lo Spirito Santo nella Chiesa lo dà ai pastori.
Di don Oreste stupisce la sua capacità di stare al passo con i tempi, in fedeltà al Vangelo. Come ha fatto?
Diceva sempre: più sei radicato in Dio e nella tradizione viva custodita nei secoli dalla Chiesa, più hai la possibi­lità di essere 'contemporaneo' alla storia. Più stai in gi­nocchio, più sai stare in piedi. Per riassumere il suo mo­do di essere, si può dire che era un contemplativo di Dio nel mondo. Viveva un’unione mistica con Dio che non e­ra legata a spazio e tempi particolari: la Parola di Cristo pas­sava attraverso tutta la sua persona, ecco perché nessuna situazione gli era estranea. Ed ecco perché andare per le strade, dalle prostitute e nelle discoteche non era un pro­blema, ma un modo di annunciare Cristo. Cristo era la sua passione, non aveva altro.
Che cosa voleva dire per lui farsi povero con i poveri?
In loro vedeva il Cristo sofferente e ci chiedeva di ascol­tarli come si ascoltano dei maestri. Concepiva una società in cui ognuno ha un proprio ruolo disponendo del ne­cessario. Per questo affermava il diritto alla vita, alla fa­miglia, alla casa, al lavoro, all’istruzione. Da questa con­vinzione veniva la sua scelta di stare in mezzo alla gente restando continuamente in ascolto di coloro che incon­trava.

Paolo Ramonda
VICEPRESIDENTE DELLA COMUNITÀ
Paolo Ramonda, 47 anni, piemontese, è vicepresidente dell’Associazione Papa Giovanni XXIII dal 1998. Il suo cammino nel carisma nato da don Oreste Benzi è cominciato nel 1980, quando giovane obiettore di coscienza si trovava a Rimini per il servizio civile. Oggi, con la moglie Tiziana, sposata nel 1984, vive a Sant’Albano Stura (Cuneo), ha tre figli naturali e 9 accolti: la loro, infatti, è una delle tante case-famiglia dell’associazione. Laureato in Pedagogia a Torino, ha conseguito anche il titolo di magistero in Scienze religiose presso la Facoltà teologica di Torino ed è stato docente di pedagogia presso la Scuola educatori regionale. ( M.L.)





«Don Benzi, folle di Dio mosso dalla fede pura»
Andreoli: «Con l’amore curava meglio degli psicologi»
Avvenire, 4.11.2007
DI DOMENICO MONTALTO
N el 2004 Vittorino Andreoli scrisse la prefazione al libro di don Oreste Benzi Gesù è una cosa seria. Uno scritto commosso, toccante, che trasudava ammirazione per quel prete così irregolare, al quale lo psichiatra era legato da profonda amicizia. Sentimenti che Andreoli conferma oggi, ricordando l’amico.
Professor Andreoli, don Benzi era una per­sona dolcissima ma anche un prete, se vogliamo, «all’antica». Eppure – con la sua to­naca e i suoi modi d’antan – ha affascinato un laico, uno scienziato come lei, formato­si sul positivismo moderno. Ce ne spieghi i motivi.
Ciò che disarmava e conquistava era la sua fede. Una fede semplice, umile, pura, ada­mantina. Benzi ci ha aiutato a capire, con l’esempio vivente, che cosa vuol dire 'cre­dere in qualcosa', quel qualcosa che per lui era Cristo. Questa fede gli dava una forza trascinante, unica. In tal senso era diverso da certi suoi colleghi sacerdoti impegnati nel cosiddetto 'sociale', magari dotati di competenze intellettuali plurime e di gran­di capacità manageriali, nonché capaci di relazionarsi con ministri e 'vip': don Ore­ste, invece, ha fatto tutto ispirandosi solo al principio elementare della presenza e del comportamento di Gesù, suo unico maestro e modello. La sua forza nuova stava proprio in questa sua fiducia infinita in Dio e nella Provvidenza. Era un folle di Dio, senza schemi. Non faceva calcoli; non ha mai fatto, in vita sua, una richiesta di fondi.
Eppure nulla lo fermava davanti al bisogno del prossimo. Era un prete che non voleva essere sapiente, né sociologo. Ma c’è un secondo aspetto peculiare di don Benzi, altrettanto affascinante. Egli non ha mai fondato 'comunità', secondo il termine oggi di moda, ma famiglie. Da psichiatra, posso dire di non aver mai conosciuto un altro uomo che credesse tanto nella famiglia, nel rapporto uomo-donna-figli come luogo della carità: una famiglia allargata, terapeu­tica, senza teorie e complicazioni, né socio­logiche né teologico-pastorali. Famiglie che non sono 'comunità specializzate', ma ca­se in cui persone accolgono nell’ordinarietà quotidiana il drogato, la prostituta, il mala­to, il minore difficile, il barbone, costruen­do intorno a loro un clima fraterno nella naturalità dell’umano. La gestione della convivenza non era data dal regolamento, come solitamente avviene nelle comunità, ma dall’amicizia, dal rapporto personale io-tu, dall’amore per Cristo visto negli altri, con semplicità assoluta. Entrare in una famiglia di don Oreste poteva dar inizialmente l’impressione – anche a me psichiatra – di entrare in un manicomio. In realtà nel caos si intravedeva un preciso principio ordinatore: l’amore. Questa sua intuizione della casa-famiglia ha dimostrato di funzionare, ad ogni latitudine. Davanti a quell’autenticità umana, si comprende fra l’altro anche la degenerazione di tanto sedicente 'volontariato', divenuto in realtà un lavoro qualsiasi, un impiego come un altro, fatto per soddisfare bisogni esistenziali indivi­duali o, peggio, per camuffare degli affari.
Da addetto ai lavori della psichiatria lei può quindi convalidare la 'terapeuticità' dello stile di Benzi, del suo approccio uma­no ed evangelico.
Certo. Non si trattava però di una terapeuiticità secondo le solite categorie tecnico­scientifiche, perché fondata sull’ausilio de­gli psichiatri e dei vari professionisti (che pur non mancava), ma perché esito diretto, ripeto, di uno stile umano inzuppato d’amore cristiano. Ciò che di lui mi ha stupito era esattamente questa 'debolezza delle teorie', questo coraggio quasi incosciente, ma in verità nitido e concreto. Tale attrattiva umana di don Oreste era indiscutibile, ed era il motivo per cui tanti lo hanno amato e seguito. E, a pensarci bene, in lui c’era anche un’altra, una terza 'stranezza'.
Quale?
Non si spaventava del fatto di essere lascia
­to solo, di essere deriso non solo da alcuni non credenti ma anche da qualche eccle­siastico. Ricordo convegni organizzati dalla sua Associazione, disertati dal mondo cu­riale, politico, scientifico. Talora ero io l’uni­co 'esterno' ad assistere a quegli incontri.
Del resto Benzi non badava alle formalità e alle apparenze, neppure le proprie. Spesso poteva sembrare trasandato. Ricordo che gli dicevo, sia pur con devozione filiale: «Sei un prete brutto». In realtà, era totalmente assorbito dal suo donarsi, e ciò lo rendeva affascinante.



«La Chiesa unita e concreta Solo così amiamo i poveri»
Il suo intervento alla Settimana sociale: in Italia bimbi sgozzati e donne schiave E noi cosa facciamo? Siamo complici?
Avvenire, 4.11.2007

Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato il 19 ottobre da don Oreste Benzi alla Settimana sociale dei cattolici italiani svoltasi a Pisa.
Mi chiedevo mentre ascoltavo gli splendidi oratori: ma come realiz­zare il bene comune? Io ho visto, penso e credo che il nemico – perdonate la parola – del bene comune è... siamo noi cat­tolici. In che senso? Ovunque ci si gira si è persa, si è sbriciolata e poi scomparsa la co­scienza di essere popolo, popolo di Dio, con una missione di salvezza da portare. Oggi però, oggi, 19 ottobre, ieri, domani. Il mes­saggio di Gesù, meglio, la soluzione dell’esi­stenza umana che ci dà Gesù, l’ha affidata a noi, ma non si può portare avanti così, sbri­ciolata.
L’interesse di partito, l’interesse del potere, l’interesse delle stanze dei bottoni e tutto ciò che è collegato a esso è diventato la coscienza pratica ed attuativa, e così si ha il tradimen­to della rivoluzione cristiana, come dice Be­nedetto XVI, della rivoluzione di Dio. Perché mancano le strategie comuni da portare a­vanti. Ogni realtà, ogni gruppo ecclesiale, o­gni parrocchia, ogni movimento.
Dice bene Seneca che il vento favorevole a poco giova, se il marinaio non sa dove an­dare. E quando la barca sta troppo ferma cor­re il rischio di affondare. Per inerzia, per u­na legge interna, dell’inutilità. Mancano que­sti piani.
Facciamo un esempio. Oggi, mentre siamo qui, in media, 500 bambini vengono sgozzati e uccisi. Omicidio premeditato, voluto, in I­talia. 180mila l’anno. Ma queste creature ur­lano, e il grido loro sale a Dio. Mentre si sta vicino a Dio questo grido lo si sente, ma se non lo si sente, vuol dire che qualcosa c’è da rivedere nel nostro rapporto con Dio e con i fratelli. Non posso dare indirettamente il mio permesso; chi tace – ma non è un tacere con la parola soltanto – chi tace con i fatti è com­plice del delitto. Le nostre mani – si voglia o no, anche se dà fastidio – grondano sangue. Non c’è tempo, ma possiamo vedere i modi concreti.
Un’altra cosa: 100mila donne sono tenute sotto sfruttamento in Italia. Non ascoltate quel che dicono, che sono libere. Vorrei por­tarvi tutti sulla strada, portare almeno due donne in casa ad ognuno di quelli che sostengono che sono libere. Vergogna! E allora io dico: perché viene mantenuto un massacro, un orrore simile? Non si vuol perdere il voto di 10 milioni di cosiddetti clienti. Mi diceva un pezzo grosso, grossissimo (siccome abbiamo fatto una proposta di legge di iniziativa popolare): chi vuole che glielo approvi, padre? Qual è quel partito che è disposto a perdere anche un solo voto? E io ho detto: siete dei prostituti politici. Date le di- missioni e andatevene. Non potete fare questo, la dissacrazione.
Perché non viviamo noi la visione dell’auto­rità come ce la dà Gesù, che è la via e la ri­voluzione, perché unifica il popolo? Voglio di­re: in 4 o 5 mesi si potrebbero liberare tutte le 100mila schiave. Perché non lo si fa?
Il vento favorevole poco giova se il marinaio non sa dove andare. E noi dobbiamo evita­re quel rischio terribile. Come dice il proverbio: chi sa fa. Chi sa e non fa si mette ad insegnare. E questo è un problema grave per tutti noi. E allora la necessità concreta.
Perché non guardiamo le carceri? Lo sapete, si stanno riempiendo di nuovo. Ebbene, ma perché? Perché c’è una non-coscienza nel popolo cristiano. Questa gente, 26mila, che è uscita, ma dove va? Il popolo cristiano apre la casa, le braccia e vive insieme con loro? Le settimane sociali. Ma vuol dire che io detengo il tuo bene, e tu il mio bene? Perché non me lo dai? Allora potremmo continua­re. Adesso inizia lo sciopero della fame a Spoleto, nel supercarcere, per l’abolizione dell’ergastolo. Hanno ragione. Che senso ha dire che le carceri sono uno spazio dove si recupera la persona se è scritta la data di entrata e la data di uscita mai? È una contraddizione in termini. Perché non devono aver il diritto di dare prova che sono cambiati? Sono degli immensi collegi con la disperazione, colui che è dentro non vuole studiare. Non è giusto questo.
È arrivata l’ora dell’azione. No, meglio, della concretezza. E concludo: oggi voglio dire ancora che occorrono strategie comuni da attuare, ognuno nel dono carismatico che ha, nel dono della parrocchia in cui è, nella diocesi in cui si trova. Ma dobbiamo veder i fatti, la gente si sente tradita tutte le volte che ripetiamo le parole di speranza, ma non c’è l’azione. Cos’hanno lasciato i cattolici, permettetemelo? Hanno lasciato la devozione. Devozione che è unione con Dio-Amore, che è validissima, ma la devozione senza la rivoluzione non basta, non basta. Soprattutto le masse giovanili non le avremo mai più con noi, se non ci mettiamo con loro per rivoluzionare il mondo e far spazio dentro. Ma il vento è favorevole, perché il cuore dei gio­vani, ve lo dico – e non badate alle cassan­dre – oggi batte per Cristo. Però ci vuole chi senta quel battito, chi li organizzi e li porti a­vanti in una maniera meravigliosa.
La conclusione è questa: perché non individuiamo in Italia dei target da raggiungere. I nostri vescovi li dicano e la Chiesa li indichi. E poi tutti insieme portino il resoconto. E al­le settimane sociali raccontiamo il cambia­mento avvenuto, la trasformazione. E il gri­do dei poveri che finalmente viene ascolta­to. Cosa ci serve, se no? Qui mancano i pro­tagonisti delle conseguenze che ci sono sta­te dette così bene, profondamente. Nella giornata Onu per l’estrema povertà, io al con­siglio comunale di Rimini ho chiesto che o­gni consigliere comunale prenda accanto a sé uno dei nostri barboni – li chiamiamo co­sì, ma sono uomini creativi di storia – e lo u­si come assistente, però con i pantaloni con le pezze, perché ricordino agli altri che son lì per diventare poveri, cioè per farsi prossi­mo, altrimenti abbiamo una testa che ra­giona, ma non dà più ordini al cammino.
Ecco, io vorrei che fossimo un cammino di popolo. È la grande ora della Chiesa. Questo è il kairos, il tempo dell’intervento di Dio è giunto, il vento è favorevole, però bisogna dare una mossa creativa. I nostri ragazzi, i nostri piccoli angeli crocifissi, i nostri barboni che andiamo a prendere tutte le sere alla stazione, in realtà sono i soggetti attivi e creativi di umanità. Il bene che fanno loro ai giovani è incalcolabile. Dobbiamo riconoscerlo e dare una svolta più concreta a questi incontri. Grazie.
Oreste Benzi


L’imprenditore: «Mi diceva: il ricco non sia padrone» Avvenire, 4.11.2007

Vittorio Tadei, big dell’abbigliamento, con don Benzi in ogni iniziativa: ci ha insegnato a essere contenti
DAL NOSTRO INVIATO A RIMINI
PAOLO VIANA
« Don Oreste è un grande perché ci ha insegnato a essere contenti». Te lo dice con la luminosità di chi ha imparato che quella 'contentezza' non nasce da questo mondo, ma sei fortunato se hai incontrato qualcuno che ti ha indicato la via più diretta per raggiungerla. Vittorio Tadei l’ha trovato in don Oreste Benzi. Nella grande famiglia della Comunità Giovanni XXIII, fatta di fratelli e di figli, Vittorio Tadei occupa un posto particolare. Quello dell’amico di don Oreste. Il laico che il sacerdote riminese voleva al suo fianco in ogni impresa difficile.
L’unico che aveva accesso a tutti i segreti della comunità, il primo a salire sull’aereo con don Oreste, come quando andarono in Zambia per aprire la prima missione estera. E dopo quello, tanti altri viaggi intercontinentali insieme a un prete che amava i bisognosi e non voleva riposarsi mai. In queste ore, Vittorio non si stacca dalla camera ardente, la stessa chiesa in cui per trent’anni si è incontrato con don Benzi alla messa del mattino. Ogni giorno, alle 7.30: «Era la nostra colazione, iniziare la giornata con il Vangelo e poi, al bar, commentando i giornali», racconta. Per lui don Benzi è «il martire della carità di cui parla il nostro Vescovo, l’uomo che ha fatto contente migliaia di persone, perché sapeva aprirci gli occhi e darci il concetto di Dio. Vede, l’uomo senza il senso di Dio non è contento, non conosce il proprio traguardo, mentre se ha un ideale grande è in pace, non ha paura, ha la felicità». Parole semplici e sensazioni impetuose, a cascata, come quelle di un ragazzino che si infiamma. Eppure Tadei un ragazzino non lo è. Non solo per i suoi 72 anni, ma perché a Rimini lo conoscono tutti. E non solo a Rimini. La sua società di abbigliamento, la Teddy, fattura 286 milioni di euro, dà lavoro a 430 persone ed è presente in una novantina di Paesi. L’ha costruita come sarebbe piaciuto a don Benzi, ma ben prima di conoscerlo: «Alla base della società c’è un sogno, quello di guadagnare creando occupazione, di fare utili ma di 'investirli' anche in opere sociali, di dare lavoro ai diversamente abili», racconta con l’entusiasmo di chi sogna ancora. Gli adolescenti che, a migliaia, sciamano ogni giorno nei magazzini Terranova – una delle controllate Taddy – non lo sanno, ma dietro quel marchio c’è anche una storia di amicizia e di valori forti. «Ho conosciuto don Oreste quando ha iniziato a occuparsi di tossicodipendenze, perché ero preoccupato per il futuro dei miei figli e mi ha insegnato a essere un uomo. Anche un imprenditore, certo: lui diceva sempre che un ricco dev’essere amministratore e non padrone», spiega. Per decenni, Tadei ha finanziato la Comunità in assoluto silenzio: «Non mi andava di esibirlo, non è giusto, ora mi faccio intervistare solo perché voglio rendere onore a un grande uomo, un santo». Il sodalizio tra i due era schietto e totale come sanno essere le amicizie da queste parti. «Non si poteva non volergli bene, del resto lui voleva bene a tutti, senza distinzioni. Ora per un po’ mi sentirò orfano, ma non infelice». Tadei era con Benzi anche nell’ultima cena del gruppo, giovedì sera. «Sì, don Oreste sapeva di star male – ammette, con gli occhi lucidi – e sapeva che la morte si avvicinava, ma era felice, perché per tutta la vita aveva costruito quella relazione vitale con Dio che ha insegnato a noi».







Era bello che lui ci fosse. Bello e anche comodo
DAVIDE RONDONI
Avvenire, 4.11.2007
Ora pensiamo: era bello avere un don Benzi. Lo pensano tutti. Era bello che ci fosse un tizio così. Un grand uomo così. Era bello, era fantastico. Lo pensano quelli che amano la Chiesa, e quelli che non la amano. Quelli che ci stanno dentro da sempre, quelli che l’hanno scoperta più tardi, e quelli che ogni volta che possono ne dicono peste e corna.
Al bar, o sui giornali. Per tutti era bello avere un don Benzi. Uno col suo sorriso certo. Un sorriso sereno e tuttaltro che babbeo. Da romagnolo che sa come stanno le cose. Che non ha paura, e ha dentro una passione che non la frena nessuno.
Era bello, era fantastico avere uno così. Che tiene per mano la ex prostituta e la fa accarezzare dal Papa. Uno che ha fatto risuccedere la scena di Maddalena, che l’ha fatta accadere oggi, quella che nel vangelo piace a tutti, poiché tutti ci sentiamo un po’ come lei. Era bello.
Uno che diceva pane al pane. E diceva contro Bush, ma anche contro l’Iraq. E contro la pena di morte, ma anche contro l’aborto. Uno così faceva parte del nostro panorama. Era di tutti, dei credenti e dei meno credenti. E degli idolatri, che credono solo a se stessi o al padrone di turno - la politica, la scienza, le mode… Lui si vedeva lontano un miglio che credeva a Dio. E al suo amore per gli uomini. Ci aveva scommesso sopra la sua intera vita d’uomo e di prete. Era una presenza, una bella figura. Chissà se i riminesi ora si sentiranno rappresentati più dal suo viso sorridente e spettinato che dal faccione un po’ di cartapesta di Fellini. O se almeno li affiancheranno. Chissà se avranno questo colpo di genio e di cuore.
Perché era bello avere don Benzi, sapere che c’era, a Rimini e nel mondo, con le mani e il sorriso dei suoi ragazzi. Con il loro volto che tendeva a somigliare al suo. Ognuno diverso e ognuno un po’ come lui. Tirati su da lui.
Come ha detto una ex ragazza di strada al tg: mi ha fatto conoscere Cristo, mi ha fatto ritrovare fiducia in me stessa, e amare la vita. Tre cose semplici e grandiose. Che oggi non saprebbero, non potrebbero dire tanti intellettuali, tanti principi dei salotti televisivi, tanti capi della politica e dell’economia.
Amare la vita. Per questo era bello sapere di don Benzi. Era fantastico perché uno così, anche se non ci andavi d’accordo, anche se non capivi cosa voleva o dove andava a parare, ti fa amare la vita. La presenza di un tizio così serve proprio a questo, all’ex prostituta, come al grande manager. Al fortunato e al disgraziato. A chi ha molto e a chi ha niente.
Era bello, era fantastico il fatto che Dio avesse suscitato uno così nella terra dove la bestemmia è facile come un’invocazione, dove molti non volevano il prete vicino neanche sul letto di morte. Ma lui lo avrebbero voluti tutti vicino. Anche i politici o quelli che sbuffavano per le sue trovate, le sue idee. Diciamolo: per la sua testimonianza cristiana. Anche loro ora dicono: era bello avere uno così. E io sommessamente aggiungo che era bello, sì, ed era comodo. Perché lui c’era anche quando noi non c’eravamo. Dove la gente non sa più come fare lui c’era, anche quando noi non c’eravamo. Era sulle strade e in quel luogo segreto del cuore dove si sta per disperare a causa di tutto l’orrore che si vede, e però ti veniva in mente lui, e gente come lui.
Era bello, ed era comodo che lui ci fosse. Ora Dio gli ha dato riposo. Gli ha dato il sonno dei giusti. Lo tolga un po’ a noi, ci doni quel sorriso, almeno un poco, e quella simpatia romagnola e santa.





LA PROFEZIA DI DON ORESTE
UN MENDICANTE D’ANIME SUI VIALI DELLA RIVIERA ROMAGNOLA

MARINA CORRADI
Avvenire, 3.11.2007
« Se chiama qualcuno dalla strada e vuole venirne via, dare subito il numero di cellula­re di don Oreste». La scritta in ca­ratteri grossi, neri, dietro la scri­vania in una stanza di via Grotta Rossa a Rimini, era imperiosa. L’ordine della casa, cui nessuno poteva contravvenire. Nel caso di un barlume di ripensamento, magari nello sfinimento di un’al­ba livida su un viale di periferia, don Benzi – 58 anni di sacerdozio – sapeva che bisognava esserci, subito: prima che la rassegnazio­ne seppellisse il principio di una sparuta speranza.
Il vecchio prete morto nel suo let­to, nel sonno, tra la notte dei San­ti e quella dei Morti, aveva sotto la tonaca lisa qualcosa di una sta­tura epica. A seguirlo nel fondo delle notti riminesi, nei giri in cui raccattava prostitute e drogati per convincerli a cambiare vita, si a­veva inizialmente l’impressione di uno straordinario don Chi­sciotte. Le ragazze dei viali guar­davano come un folle gentile quel prete coi capelli bianchi che pro­metteva una vita diversa. Pareva, ad accompagnarlo in quelle bol­ge notturne, surreale il dialogo fra un sacerdote ottantenne e rume­ne o nigeriane diciottenni. Cre­devi che quelle ragazze sarebbe­ro scoppiate a ridere. Invece no: lo ascoltavano, infastidite prima, poi meravigliate. Guarda, diceva il vecchio nella luce rossastra dei falò, che tu non sei nata per vive­re così, guarda che puoi ricomin­ciare tutto da capo. E sotto il truc­co pesante, da marciapiede, due occhi lo guardavano, stupiti, do­po tanto tempo, nel sentirsi guar­dare come qualcosa di prezioso. Cinquecento donne hanno cam­biato vita incontrando una notte quel prete. Un cacciatore d’ani­me sui viali della riviera roma­gnola; o, più che cacciatore, un mendicante. Gentile, ostinato, al­lungava tenacemente la mano. Non si arrendeva mai. Un combattente, anche. Uno che si alzava alle 5 del mattino e diceva le Lodi e il rosario in macchina, in viaggio verso uno dei 33 centri della Comunità Giovanni XXIII. Tuttavia, il mare di cose che riusciva a fare, a stargli accanto solo per qualche ora, pareva quasi un secondo lavoro rispetto al vero centro delle sue giornate: la preghiera, ora esplicita, ora inte­riore. Baricentro costante e si­lenzioso. Era strano vedere un sa­cerdote in tonaca nera fra la fol­la vociante e sguaiata delle notti di Rimini. E arrancandogli ac­canto – a 80 anni, alle due di not­te don Oreste non era stanco – domandavi se non si sentiva a di­sagio, in quel caos. «A disagio? Qui sto benissimo. Faccio con­templazione. Cerco Cristo nella faccia di tutti quelli che incon­tro ».
È stata la profezia di don Benzi: per trovare Dio non occorre chiamarsi fuori dal mondo, o frequentare buone compagnie. In mezzo agli uomini invece, nelle loro notti avide o smarrite, a ri­conoscere cosa c’è davvero dietro quell’ansia di vivere – che cosa at­tendono e non trovano, nell’eb­brezza del buio e dell’estate, in fondo a nessun gioco o bicchie­re. In mezzo agli uomini, tra di lo­ro e anzi tra quelli che crediamo peggiori. A testa alta, sicuro – ep­pure sempre con quella mano a­perta e tesa. Ci resterà, di don Benzi, il ricordo di un colloquio nel suo studio con una giovane prostituta africana appena sfuggita ai suoi protetto­ri. Guardavamo in basso, e così abbiamo notato i piedi. Quelli della ragazza, neri, agili come di una gazzella inseguita, e irrequieti di paura. Quelli di don Oreste, le scarpe grosse con le suole con­sunte da prete di marciapiede. Immobili, piazzati a terra come colonne. Come di chi ha radici di una fede profonda, e non oscilla, e non ha paura di nessuno.




L’Italia piange don Benzi, prete degli ultimi
Ieri notte a Rimini il malore fatale. «I sacerdoti si devono strapazzare per le anime»

Avvenire, 3.11.2007
DAL NOSTRO INVIATO A RIMINI
PAOLO VIANA
« D on Elio, io muoio». Don Oreste Benzi, il prete dalla tonaca lisa che ha insegnato la condivisione vivendola, se ne è andato a 82 anni con serenità, pronunciando queste parole, che og­gi suonano come una sintesi estre­ma del «pane quotidiano», la rifles­sione che aveva vergato lui stesso per la commemorazione dei defunti di ieri e dove, per la prima volta, il pre­te degli emarginati rifletteva sulla pro­pria morte. È arrivata ieri mattina, al­le 2 e 22 – dopo l’ennesimo attacco di cuore che ha reso vano anche l’in­tervento del 118 – al primo piano del­la casa parrocchiale della Resurre­zione, a Grotta Rossa, dove Rimini è già campagna e guarda il Montefel­tro.
Qui è stata alle­stita la camera ar­dente, in attesa dei funerali, che si svol­geranno lunedì mat­tina nel duomo di Ri­mini. Qui don Benzi ha vissuto per qua­rant’anni con don E­lio Piccari, il sacer­dote con cui aveva fondato nel 1968 la comunità di sacer­doti che ha dato vita all’Associazione Gio­vanni XXIII. «Aveva avuto un attacco cardiaco a Parigi, in occasione di una delle sue estenuanti missioni – racconta Giampiero Cofano, responsabile e­stero dell’Associazione e del settore antitratta internazionale – ma si osti­nava a negare tutto». Invece, di ma­lori don Benzi ne aveva avuti parec­chi negli ultimi tre mesi. Martedì era svenuto all’aeroporto di Fiumicino, dopo un incontro con rappresentan­ti dei ministeri della Solidarietà so­ciale e della Salute. È stato assistito ma ha voluto continuare il viaggio, perché in serata doveva parlare ai gio­vani in discoteca. Era atteso all’«Eu­ropa », un locale dell’entroterra, dove si svolgeva una festa alternativa ad Halloween, insieme al vescovo di San Marino, monsignor Luigi Negri. È ar­rivato puntuale e, come ha detto a un suo collaboratore, «ha dato il meglio di sé ai suoi giovani». «Sosteneva che i preti dovessero strapazzarsi per le anime» dice Enrico Masini, respon­sabile del servizio maternità difficili, testimone di parecchi «strapazzi». Ci mostra l’agenda di don Oreste: ben oltre il limite dell’umana sopporta­zione. «Quante volte ha dormito in auto, per arrivare dappertutto» ricor­da una sua collaboratrice, in lacrime. Il prete delle prostitute e dei disabili non amava le ingiustizie ma neppu­re i rimorsi, preferiva vedere il lato ot­timistico delle cose ed era, anche in questo, un vero romagnolo, pratico e gioviale. «Il suo sorriso aperto fu la prima cosa che notai – rievoca don E­lio – quando lo incontrai in semina­rio. Veniva da una famiglia umile. De­scriveva suo padre con grande amo­re, come uno che non voleva farsi no­tare. Credo che apprese in quella sua bella famiglia l’attenzione per i più poveri e il desiderio di donarsi a lo­ro ». Fino all’estremo, ma sempre con quel suo sorriso che era il riflesso di una fede stentorea.
Don Benzi non par­lava spesso in prima persona, perché pre­feriva far parlare il Si­gnore attraverso la sua opera, sporcan­dosi le mani con i reietti, comprese le ragazze di strada per difendere le quali e­ra finito nel mirino della «mala». Come non voleva la scorta, così non amava i medici ma, moltissi­mo, la medicina. «Era affascinato dal­le tecnologie e scherzava sulla coro­narografia che avrebbe fatto l’indo­mani – spiega Cofano – che eviden­temente aveva accettato solo perché i dolori erano diventati insostenibili». Diceva di sè: «Sono una dinamo, se mi spengo mi fermo».
Aveva imparato a curare il proprio cuore con la pillola salvavita, ma lui curava gli altri con la fede. Ne parla don Elio: «come insegna San Giaco­mo, usava l’imposizione delle mani e la preghiera, ho visto centinaia di ma­lati risollevati». Ne parla Oscar Baffo­ni, ex viveur, oggi responsabile del­l’Associazione in Asia: «avevo un tu­more con metastasi, don Oreste mi ha aiutato molto». Era con lui anche giovedì sera al ristorante «Grotta ros­sa ». Un’ultima cena con gli amici più stretti, a base di tagliolini e sangiove­se, scherzando sulla malattia e sugli esami dell’indomani. «Una cena in gazzoia, cioè gioiosa, come diciamo noi in Romagna» conclude don Elio.
Di recente aveva avuto un attacco cardiaco, ma non aveva voluto diradare gli impegni. Ai suoi diceva: sono una dinamo, se mi spengo mi fermo.



Il suo popolo: grazie, abbiamo ritrovato la vita
l’omaggio

Avvenire, 3.11.2007

Donne salvate dalla strada ed ex tossicodipendenti in coda: ci ha accolti senza chiederci nulla
DAL NOSTRO INVIATO A RIMINI
LUCIA BELLASPIGA

L a cifra di una vita si deduce anche dalla sua morte. E quella di don Benzi, contro ogni logica uma­na, non lascia spazio al­la disperazione.
Rimini, parrocchia del­la Resurrezione, quella fondata da lui 40 anni fa per dare asilo alle speranze degli ultimi: è qui che da ie­ri a mezzogiorno è allestita la camera ardente, ed è qui che una folla si dà costantemente il cambio ac­canto alla bara aperta in cui don Oreste riposa a qual­che ora dalla morte. Poche le lacrime, molti i sorri­si, gli abbracci, le preghiere recitate con serenità, tut­ti stretti attorno a lui come avveniva in vita. Tanti i giovani, molti di questi sono i suoi «emarginati» e lo vedi a occhio nudo: ex drogati, ex prostitute, ragaz­zi cosiddetti difficili, eppure qui tutto in realtà è co- sì facile, loro compresi. Jeans, orecchini, codini, non importa: buttano la sigaretta ed entrano in chiesa, pregano assieme agli anziani, agli handicappati, ai volontari, alla gente del quartiere, a Rimini tutta. Fuori, sui muri, intanto si moltiplicano i manifesti del lutto, solo che anche questi non hanno nulla di tragico: «La ringraziamo per esserci stato parroco dal 1968 al 2000», si legge in uno, «Grazie per averci tracciato una vita con Gesù nella gioia» in un altro, «Grazie per il dono della Scuola materna», «per la Po­lisportiva che ci aiuta a fare gruppo», «per il Circolo anziani», persino «per il Bar: se non ci fosse alla se­ra sarebbe tanto buio»... Grazie, grazie, grazie.
L’ultimo che si aggiunge è quello dell’amministra­zione comunale. Don Benzi era presenza, e lo è ancora adesso che non c’è più. Nella chiesa di cemento, sotto un cono di luce intensa che scende dal sof­fitto aperto verso il cielo, giace quel che resta quaggiù di don Oreste, un leggero velo bianco lo ricopre senza na­scondere nulla, il viso ancora fresco, le mani giunte e tra le dita una rosa rossa, il fiore dei vivi. Nel gior­no dei morti una delle sue ragazze va al microfono e legge «l’ultimo suo Pane quotidiano», come chiamava i commenti alle Letture che ogni giorno scriveva per loro. Parole che oggi lasciano attoniti, perché spiegano il mistero che abbiamo davanti: «Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra – aveva già previsto – la gente che sarà vicino dirà: è morto...». Tutti ci si guarda, quasi in colpa per averlo effettivamente pensato... «In realtà è una bugia – continua la ragazza –. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde...», e non puoi non guardarle, «ma in realtà la morte non esiste perché appena chiuso gli occhi a questa terra mi apro all’infinito di Dio...».
Lo diceva sempre, don Benzi, e ha il potere di ripeterlo anche adesso, con il suo corpo disteso in mezzo a noi ma vivo come e più di prima: «La morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. Il momento dell’abbraccio col Padre, atteso intensamente». E allora di che piangere? Un’altra ragazza prende la chitarra e il silenzio si scioglie in un canto collettivo. Poi si recita il rosario e la gente dalle panche si alza per stringersi di più a lui. Tanti i bambini, lo guardano in volto stupiti. «Sì, mio figlio è vivo grazie a lui», annuisce una madre, conscia di ciò che significa: «Senza dubbio io avrei abortito, lui mi ha dato la forza di non farlo senza mai giudicarmi». «Quando dico Messa e vedo i bambini correre sotto l’altare ne riconosco sempre qualcuno», diceva spesso don Benzi, come racconta un volon­tario: «Allora rideva e in dialetto romagnolo gli di­ceva:
la t’è nde bin, ti è andata bene...».
Vien da dire che è andata bene a tutti, là dentro, per il privilegio di averlo incontrato. «Grazie a lui ho trovato la vita, la gioia, la fede», si illumina una ragaz­za, e non importa che per questo sia dovuta passa­re attraverso il dolore più nero, anzi, se questa era la condizione necessaria ben venga: «Ero una tossico­dipendente. Sono venuta da lui per uscirne, se il mio passato di droga doveva condurmi a tutto questo io ringrazio anche dell’abisso che mi ha portata quii». In fondo alla chiesa Maria e Api, due ragazze di co­lore, pregano vicine. «Ci ha strappate alla strada sen­za mai chiederci chi fossimo. A lui non interessava, gli bastava dire a tutti il suo sì, persino a noi».


La sua «capanna» fra gli emarginati
I «senza fissa dimora»: era il nostro grande padre

LE VITE RINATE
Avvenire, 3.11.2007

DA RIMINI FRANCESCA LOZITO

D a tanto tempo aveva deciso che questa sarebbe stata la sua casa. E da due mesi don Oreste Benzi viveva qui: la Capan­na di Betlemme, sulle colline di Co­vignano, che sovrastano Rimini e da cui si vedono la città e il mare, non è solo fatta di muri. È un luo­go in cui vivono quelli che nella vi­ta di prima, quella della solitudine, erano, per vari motivi, senza di­mora. Quelli che se li incontri a un angolo della strada li eviti e che in­vece qui sono trattati con cura e si sentono persone. In mezzo a loro i volontari, ragazzi dai volti puliti che hanno fatto una scelta preci­sa. Hanno risposto a una chiama­ta: stare in mezzo agli ultimi.
Qui c’è la stanza in cui don Oreste ha dormito negli ultimi giorni di vita. È solo un caso che l’altra notte non ci fosse, doveva curarsi, per questo era rimasto a Rimini. Un paio di ciabatte ai piedi del letto, una coperta semplice e degli a­sciugamani puliti. Tante scatole ancora da aprire, gli occhiali sul ta­volino e una coppetta con acqua e aglio, un ottimo antibiotico natu­rale, come sa bene chi come lui vie ne dalla campagna. Alla parete, la foto di tre persone qualunque tra la sua gente, volti sorridenti di chi è sceso nell’inferno ed è ritornato alla vita. E poi il computer e la stampante, gli strumenti di un la­voro quotidiano fatto di incontri che cominciavano la mattina e fi­nivano la sera. Anche ieri, molto presto, alle 7 avrebbe voluto par­lare di un progetto con il coordi­natore di Rinnovamento nello Spi­rito, Salvatore Martinez, a Rimini per l’annuale conferenza anima­tori. Incurante del malessere, non si era sottratto.
All’ora di pranzo gli ospiti della Ca­panna, in tutto una quarantina tra quelli che sono qui fissi e quelli che girano con l’unità mobile che si oc­cupa soprattutto di assistere i sen­zatetto che si trovano nella zona della stazione, stanno guardando alla televisione un servizio su don Oreste. Sono tutti commossi. Car­lo Fabbri, un volontario che ha il compito di coordinare, racconta che «anche se lo aveva deciso da molto tempo, da un giorno all’al­tro ci aveva detto ’domani vengo’. Aveva scelto di stare qui per far par­te della vita della comunità e, an­che se le sue giornate iniziavano alle cinque di mattina e finivano alle 11 di sera, trovavamo sempre un suo messaggio sul tavolo con scritto vi saluto e vi affido alla Madonna, stasera ceno con voi». A un patto però: «Che quando tornava ci portasse qualcosa del posto – continua Carlo – come il pecorino dalla Sardegna che abbiamo man­giato tutti assieme». Come un padre lo ricordano gli a­bitanti di questa casa: «Era la ga­ranzia della chiarezza del nostro cammino di comunità – dice Be­niamino, anche lui volontario – che dava importanza a tutti, dal primo all’ultimo. E che metteva al centro il Signore, qui alla Capanna in cappella spessissimo si fermava a pregare e diceva la Messa con noi».
Attorno al tavolo tutti vogliono dire qualcosa: Gianfranco è la seconda volta che è ospite qui: «L’ho conosciuto personalmente un mese fa, era un uomo nato per il pros­simo ». Poi Antonio che se ne sta in un angolo e riesce solo ad affermare «era una bravissima perso­na ». Qualcuno, come Salvatore che viene da Napoli e ha una storia du­ra di problemi psichiatrici alle spalle, ha invece una gran voglia di raccontare e ammette di «sentire molto la sua mancanza, oggi siamo un po’ più tristi, ma siamo sicuri che è andato in Paradiso, perché ci ha aiutato con tutto il suo amore». Poi, in ordine sparso la comunità della Capanna di Betlemme si muove verso la parrocchia della Resurrezione. Si sistemano sui pul­mini e nelle macchine per andare a pregare ancora una volta con don Oreste, anche se ha lasciato fisica­mente il mondo degli uomini. An­drea, volontario con una grandis­sima vitalità, ammette che «era u­no dei pochi difensori dei poveri». Daniela gli fa eco: «Ora possiamo solo portare avanti quello che lui ci ha lasciato». La piccola carovana si muove per scendere dalla colli­na. Entrano composti in chiesa, sa­lutano chi è già lì. In silenzio e nel­la preghiera custodiscono l’ultimo tratto della vita di don Oreste.



Il popolo di don Benzi: storie di riscatto
la mamma
«Grazie a lui Francesco è venuto alla vita»
Avvenire, 3.11.2007

DA RIMINI QUINTO CAPPELLI
« D on Oreste mi ha stretto le mie mani fra le sue e, fissandomi negli occhi, mi ha detto: non avere paura, figlia mia, noi ti vogliamo bene e troveremo presto una famiglia per te, per il bimbo che porti nella pancia». A raccontarlo con le lacrime agli occhi è Lorena Olarou, 29 anni, clandestina romena da due anni in Italia, ma soprattutto mamma di Francesco, un bimbo di due mesi, che doveva essere il suo tredicesimo aborto. Ora Lo­rena, il piccolo Francesco e l’altro figlio, Catalin, di 13 anni vivono in una casa famiglia della comunità, guidata dai coniugi Elena e Sergio Antonello e formata da 13 persone.
La testimonianza di Lorena, che ora vive «il momento più bello della sua vita», è incredibile. In Romania è cresciuta coi nonni, «perché abbandonata dai genitori giovanissimi che dovevano finire l’università, a loro volta abbandonati ». Col primo marito è nato Catalin, col secondo Alexandra di 11 anni e ora il terzo è il padre di Francesco. Racconta col piccolo in braccio: «Quando ho sa­puto che ero di nuovo incinta, ho pensato all’aborto. Ma sarebbe sta­to il tredicesimo aborto volontario negli ultimi anni. Allora ho saputo che a Rimini c’era Rita Paganelli del­la Caritas che aiutava le madri in difficoltà. Rita mi ha portato da don Oreste, che mi ha convinto a non get­tare via questo dono di Dio, dicendomi: molti si oc­cupano oggi dei vecchi e dei bambini, ma noi dob­biamo aiutare anche le vite che incominciano».
Insieme a Catalin, Lorena ha vissuto due mesi in ca­sa di Rita, tre mesi in un hotel e da giugno nella casa famiglia, dove il 28 agosto scorso è nato Francesco. «Una settimana prima che nascesse è venuto don Benzi per una festa. Mi ha toccato la pancia e mi ha benedetto. Ci siamo abbracciati forte, piangendo di gioia. Ai primi di ottobre sono andata con Rita da don Oreste per mostrargli com’è bello Francesco, ma era in giro. Così in questi giorni porterò Francesco vici­no alla sua bara, per chiedere la benedizione dal cie­lo, perché è un vero dono di Dio e un figlio spirituale di don Oreste».
La Comunità ha aiutato Lorena a regolarizzare la si­tuazione di clandestina e di lavoratrice in nero, otte­nendo alcuni diritti di maternità ed il libretto sanita­rio. Commentano Elena e Sergio: «Appena si potrà, andrà a vivere da sola con la sua famiglia ricompo­sta ». «Se questo dono di Dio ora è la gioia di tutti – con­clude Lorena indicando Francesco –, lo dobbiamo proprio a don Oreste».
Immigrata clandestina dalla Romania, Lorena era decisa ad abortire per la tredicesima volta Solo l’incontro con il prete di Rimini l’ha convinta: «Ho visto nel bimbo un dono di Dio»



raccolta dalla strada
«Mi ha aiutata subito come fossi sua figlia»
Avvenire, 3.11.2007
DA RAVENNA
Alexandra è una ragazza romena di 20 anni, u­scita dall’inferno della prostituzione e redenta da don Oreste Benzi. Ora vive in una casa fa­miglia della Giovanni XXIII di Ravenna, guidata dai co­niugi Brunella e Luigi e formata da otto persone, fra cui anche tre ex prostitute. La testimonianza di Alexandra incarna ciò che don Benzi ha gridato per anni contro lo sfruttamento della «prostituzione delle bambine» in par­ticolare.
Arriva in Italia dalla Romania (dove viveva coi genitori, un fratello e una sorella) non ancora maggiorenne e clan­destina, chiamata da due coniugi romeni che vivono in una città emiliana, con la promessa di «un lavoro one­sto » in un ristorante. «Ma la prima sera mi hanno sbattuta in strada a pro­stituirmi. E guai se non portavo i soldi. Dopo i pri­mi clienti, sono stata pre­sa dai carabinieri, perché ero senza permesso di soggiorno e col passapor­to sequestrato dalla cop­pia. La seconda sera non volevo tornare in strada, ma sono stata picchiata selvaggiamente, finché la paura mi ha spinto in stra­da ». La squallida storia va avanti «per un tempo che non riesco a definire», finché altri due giovani romeni l’aiu­tano a trovare un lavoro in lavaggio per auto a Mantova. Grazie ad un ragazzo di Cremona approda a Milano, do­ve riesce a farsi rimpatriare in Romania. Il tempo per un nuovo passaporto e, «spinta dalla miseria», ritorna a Ri­mini, «dove per alcuni mesi mi sono prostituita, anche se mi faceva schifo». Fermata e controllata alcune volte, la squadra mobile la espelle col foglio di via.
«Allora un ragazzo mi ha portata da don Oreste Benzi, che mi ha accolta come una figlia che conosceva da sem­pre. Quell’amore smisurato e infinito per me di uno che non mi conosceva neppure, che non sapeva nulla di me e della mia storia e che aveva tante cose da fare mi ha im­pressionata enormemente. Se non c’era lui, io sarei sta­ta ancora in strada come le decine di migliaia di mie con­nazionali ». Da tredici mesi Alexandra è nella casa famiglia, lavora in fabbrica, dove da due mesi ha incontrato anche un fi­danzato italiano di 27 anni. «Ora, anche grazie a don O­reste, so cosa significa quando il mio ragazzo mi dice: ti amo». Il sogno di Alexandra? «Farmi una famiglia, con dei bambini e continuare la missione di don Benzi: an­dare in strada a convincere le mie connazionali a fare u­na vita normale, con un lavoro e una famiglia, nel ri­spetto delle leggi italiane, come ci ha insegnato don O­reste ».
Quinto Cappelli






E' MORTO DON BENZI, RIPASSIAMO LA LEZIONE
Il Timone - 2-11-2007
“Un infaticabile apostolo della carità”. Così l’ha definito papa Benedetto XVI nel messaggio di cordoglio inviato per la morte di Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Giovanni XXIII. Don Benzi lo abbiamo più volte visto in tv per i suoi interventi per liberare le prostitute – soprattutto africane ed est europee – alla schiavitù. Ma è stato molto di più. Proprio la sera del 31 ottobre aveva organizzato in una discoteca di Rimini una contro-festa di Halloween insieme al vescovo di San Marino, monsignor Luigi Negri, per incontrare i giovani e sfidarli sul senso della loro esistenza.

Molte testimonianze commoventi si potranno leggere sui giornali da domani, e anche sul sito della sua associazione, ma un pensiero vorremmo intanto rivolgere a tutti quei politici – di destra e di sinistra – che fin dalle prime ore dopo la morte hanno fatto a gara per eprimere il loro cordoglio. Giusto, doveroso e degno di rispetto l’omaggio a quest’uomo da qualunque parte esso provenga, ma perché parlare a sproposito e coprire con parole piene di miele la propria ostilità a ciò che don Benzi era e rappresentava? Abbiamo letto di “una lezione alla politica”, “testimonianza su cui riflettere”, “un insegnamento da non dimenticare”.
E allora forse è il caso di ricordare quell’insegnamento citando alcuni pensieri espressi da don Benzi:

Sul caso Welby e l'eutanasia: "Interessava troppo ai politici. Avrei voluto dire alla moglie che non era troncando la vita, ma dando spazio alla vita che si poteva superare la sofferenza. Questo sarebbe stato il bello e una svolta nella storia. Ma non è potuto accadere, interessava troppo ai politici". "Ho mandato un messaggio a Piergiorgio in cui gli ho detto : 'vedrai quanto è bella la vita. Chiunque soffre dà la possibilità all'uomo di ritrovare se stesso, di non ignorare l'altro, di ricomporre un'unità profonda. Non è la malattia che fa star male ma è l'abbandono che vien fatto della persona malata che lo fa soffrire’".

La nostra società e la vita: "E’ una società vecchia, cioè una società di vecchi capaci solo di spegnere le realtà più belle create da Dio: il matrimonio, la famiglia, la dignità della donna, la libertà dello spirito, l'amore di Dio e del prossimo". La difesa della vita dal concepimento alla morte naturale era per don Benzi "il primo dei grandi appuntamenti che Cristo sta dando a tutti i cristiani e soprattutto alle comunità e movimenti riconosciuti dalla Chiesa: la lotta per difendere la donna a non abortire, la lotta per garantire un'assistenza dignitosa ai malati terminali, la lotta per il riconoscimento della vera famiglia, la lotta per vincere la droga, l'impegno per accogliere veramente gli immigrati a partire dai fratelli nella fede, l'impegno per accogliere gli zingari a partire dai fratelli nella fede, l'impegno per accogliere i carcerati e per superare le carceri, l'impegno per non essere impiegati della carità ma innamorati di Cristo, l'impegno per essere popolo, la lotta per la liberazione dalla schiavitù della prostituzione".

Al Family Day: “Non esiste scientificamente l’omosessualità, è una devianza”.

Sulla prostituzione: “Se non ci fosse la domanda, non ci sarebbe l’offerta. Se gli italiani non chiedessero prestazioni sessuali a pagamento, non ci sarebbe la tratta delle donne che vengono schiavizzate e forzate, da criminali singoli o associati, a dare le prestazioni sessuali richieste. Questa ingente quantità di persone colpite dalla schiavitù, dalla disoccupazione, dalla fame, dalla guerra, sono le vittime di una società disumana, di una società in cui l'uomo è una "cosa" accanto alle altre”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

cari amici, mi chiamo Vilma e sono di Milano. Ho un sito web www.sguardoleale.it e, insieme ad altri amici del movimento (e non) presenti sul web abbiamo costituito una Associazione: SamizdatOnLine www.samizdatonline.it
Scopo di questo lavoro comune é dare spazio e visibilità a giudizi e fatti che abbiano stretta attinenza con la dottrina sociale della Chiesa, ed in particolare ai tre valori non negoziabili indicati dal Papa.
Vi invito a visitare e ns siti e, se lo riterrete opportuno, a linkarci sul vostro.
Su SamizdatOnLine, in particolare, stiamo avviando un lavoro di valorizzazione degli eventi dei Centri Culturali a noi vicini come sensibilità.
grazie
Vilma