martedì 6 novembre 2007

Rassegna stampa a cura di Giorgio Razeto

La sua storia (03 novembre 2007)
Un prete innamorato di Dio e degli uomini

di Pino Ciociola
Avvenire, 3.11.2007
Molto, molto difficile che don Oreste, anche ora, stia rimanendo con le mani in mano: più facile vada mettendosi d’accordo col Padreterno su quel che può fare e, magari, addirittura gli abbia già chiesto se anche lassù è possibile rendersi utile. È facile, ancora, che neppure adesso abbia voluto smettere la vecchia tonaca lisa di "prete da marciapiede" (che non toglie mai). E che il suo sorrisone da nonno buono abbia la luce ancora più bella.

«Decisi da piccolo che nel mio sacerdozio avrei scelto di essere al fianco di chi si sente una nullità», spiegò un paio di anni fa. Perché la sua famiglia era assai povera: il papà faceva l’operaio (ma «non sempre aveva lavoro»), la mamma la casalinga e lui fu il settimo di nove figli.
È nato il 7 settembre 1925 a San Clemente (Forlì) ed è entrato nel seminario di Rimini nel 1937, a dodici anni. Dopo altrettanti ne uscì sacerdote, il 29 giugno del 1949. E il 5 luglio dello stesso anno venne nominato cappellano della parrocchia di San Nicolò a Rimini. Poi nel 1968 la prima casa famiglia dell’"Associazione Papa Giovanni XXIII", fondata insieme ad altri sacerdoti e a diversi volontari. «I momenti peggiori della mia vita – confidò – sono quando vedo una persona disperata: mi sento impotente, piccolo, una nullità di fronte a loro. Allora però cerco di aiutare quella persona e metto tutto nelle mani della Madonna».

Raccontare don Oreste usando il passato prossimo non riesce proprio: neppure sforzandosi, neppure dopo aver riflettuto su come andrebbe descritto. E ancora meno dopo aver letto le sue parole di qualche giorno fa.
La morte è una finzione: nulla più di un parametro terreno, non certo del Cielo. Per lui morire è solo un passaggio che troppo di frequente viene interpretato ingannevolmente. Lo ha scritto chiaro e tondo poco tempo fa commentando il Libro di Giobbe proprio per l’ultimo 2 novembre, giorno dei Defunti: «Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra – spiega – la gente che sarà vicina dirà: "È morto". In realtà, è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra, mi apro all’infinito di Dio».

Solitamente di qualcuno che se n’è andato si sente sempre parlare soltanto bene, a volte per giustizia, altre magari un po’ per dovere, altre ancora per indulgenza. Con don Oreste è diverso. E a chi non lo conosce sarebbe bastato vedere ieri le agenzie di stampa sui computer dei giornalisti per rendersene conto: centinaia di "lanci" che raccontavano del dolore di chiunque, compresi gli uomini politici e da sinistra a destra.
La sua vita è semplice e tutta in una sua frase: «Ho cercato sempre di non dire no a Dio». Eppure serve un altro pezzo per capire davvero don Oreste: noi vediamo Dio <+corsivo>nei<+tondo> più deboli (su tutti), per lui Dio <+corsivo>sono<+tondo> i più deboli. E i suoi giorni non sono parole. Lo sa – bene – chi scende in strada con lui. Sempre, in ogni tempo e luogo delle «trasgressioni» più umilianti per gli esseri umani. Nel cuore di notti gelide, per esempio, quelle con la neve ai lati delle strade e sui marciapiedi le ragazze coperte quasi soltanto di freddo, con le quali parla per ore, alle quali regala rosari e due numeri: quello fisso della comunità e il suo cellulare («se hanno bisogno, devono trovarmi»).

Niente sconti a nessuno, su questo: quelle ragazze trattate come un pezzo di carne ad uso e consumo dei maschi sono schiave, chi le adopera come tali e in qualunque ruolo si metta è a sua volta uno schiavista. «Ma lei non è moderato, don Oreste!», spesso gli rimproverano. Vero. Tanto da far tornare in mente le parole di un altro grande prete morto dieci anni fa, don Luigi Di Liegro, che spiegava come «Cristo non fu un moderato e morì sulla Croce proprio per non esserlo stato»: ecco, per capirci, don Oreste è moderato nel modo di Cristo.

Ha gli occhi chiusi, adesso, ma sorride perché sa che è soltanto «una bugia» e che chiunque può ancora incontrarli: guardate dentro quelli delle donne e degli uomini ai quali ha dato l’Amore. Il suo e quello di Dio.



I suoi ultimi schierati in prima fila
Il grazie di chi ha aiutato: ci ha fatto riscoprire la nostra umanità
Avvenire, 6.11.2007
DAL NOSTRO INVIATO A RIMINI
LUCIA BELLASPIGA
Sono tutte schierate nelle pri­me file le autorità, e occupano i posti importanti, quelli d’o­nore. Sono disabili, zingari, barbo­ni, prostitute, volontari. Santi e pec­catori. Hanno i volti segnati dalla vi­ta nonostante spesso siano giovani, hanno provato la droga, la solitudi­ne, la malattia, il reato, hanno co­nosciuto la strada e i suoi abissi. Don Benzi li ha strappati a un de­stino che sembrava segnato e oggi sono loro le autorità. Dietro, molto dietro, siedo­no politici e militari, le fasce tricolori di traverso. Davan­ti a tutti, per terra, la bara in legno chiaro del «sacerdote Oreste», il Vangelo aperto so­pra...
Era difficile «contenere» don Oreste in vita. Impossibile contenerlo in morte: troppo piccolo il Duomo di Rimini per il suo popolo, funerali trasferiti al Pala­congressi, il luogo di concerti, fiere, meeting.
Ieri, per l’ultimo saluto, era affollato fin sulle gradinate. «Nessun luogo è poco adatto a don Oreste, un prete che portava la fede nei posti più im­pensabili – bisbiglia una ra­gazza –. Sabato scorso era andato in discoteca per in­contrare 350 giovani. Ricor­do ancora la sua ultima bat­tuta: 'Signore, quando verrò su da te dovrai farmi uno sconto, perché se non c’ero io quando mai te lo prende­vi un applauso alle 3 di not­te in una discoteca?'... ». Già, impossibile contenerlo, «con quel mazzo di cellula­ri che portava sempre appresso per­ché non si sa mai che qualcuno de­cida improvvisamente di cambiare vita. Diceva sempre che il coraggio di farlo può durare un istante e non si sarebbe mai perdonato se in quel­l’attimo fuggente non si fosse trova­to al posto giusto», racconta un uo­mo di colore, che in questa giorna­ta non vede l’ora di dire con orgoglio «sono anch’io della Comunità». E non gli importa se questo significa che il suo è un passato difficile.
Ecco, ciò che colpisce in questa mae­stosa assemblea di umanità così di­verse è il nessun imbarazzo con cui ognuno è apertamente se stesso. «Sono stata sulla strada – dichiara dall’altare una giovane con accento sudamericano –. Ti prego, sensibi­lizza i politici e la nostra società, tu che hai gridato il tuo no alle vetrine del sesso di Amsterdam...».
Nessuna remora, nessun pudore, perché quello è il passato. «Il pre­sente è la gioia dirompente che tu ci hai insegnato a vedere anche negli inferni in cui venivi a prenderci», continua un altro giovane «diffici­le ». Sono tantissimi i disabili, adulti e bambini. Il più piccolo, 3 anni ap­pena, corre avanti e indietro tra le panche nella platea spingendo con le gambette la sedia a rotelle che gli regge il busto. È vispo e si diverte, su una carrozzella che pare uscita da una giostra, le ruote verdi dipinte a fiori e farfalle. I giovani sono una ma­rea, molti anche i neonati nei cesti e nei passeggini. Dietro un paravento due genitori cambiano il loro picco­lo, mentre un papà seduto a terra addormenta Mattia, di 7 mesi. «Mol­ti sono quelli salvati dall’aborto. Don Oreste ne ha fatti nascere qualche centinaio che altrimenti oggi non sarebbero al mondo», spiega Anna, una volontaria. Ma altri sono sem­plicemente gli ultimi arrivati nella grande Comunità di don Benzi, quella che tutti familiarmente chia­mano «la Giovanni XXIII» e che rac­coglie tante coppie di sposi rimaste impigliate nel carisma del sacerdo­te romagnolo e del suo eterno sor­riso. Una di queste regge tra le ma­ni un libricino, «Il Pane Quotidiano», la raccolta di commenti alle Letture scritti da don Benzi, la stessa che per il 2 novembre, giorno dei Morti, comprende l’ormai ben nota «pro­fezia » autobiografica: «Quando chiuderò gli occhi a questa terra la gente che sarà vicino dirà: è mor­to... ». Sul 5 novembre, il suo ultimo giorno tra noi, trovano un’altra «pro­fezia »: «Invita alle tue feste non i ricchi e i potenti, ma i ciechi e gli storpi, coloro che non hanno nulla da con­traccambiare... ». «La vede questa gente? Sono questi gli ospiti d’onore alla sua festa, chi dal mondo è messo ai margini. Don Oreste sovver­tiva, tutto è capovolgimen­to... ». Nicolai Francesco ha un mese di vita, è il più pic­colo qua dentro, e dorme per tutta la Messa in braccio al papà Mirko. La mamma, Irina, è russa. Anche loro hanno i volti segnati, dif­ficile capire da che. «Da 4 anni viviamo nella Comunità», spiegano volentieri. «Ora però va meglio e torneremo in Russia. Mirko ha la leucemia, siamo venuti in Ita­lia per le cure, don Oreste ci ha salvati». Poco distante, sopra una pedana, una ra­gazza traduce in gesti ogni parola della Messa, persino i canti: davanti a lei il grup­po dei sordomuti. Tutti han­no un loro posto qui, nessu­no è «minore». Alla fine il co­ro si scioglie nella più strug­gente delle melodie, il testo è incomprensibile ai più: «Me selami cerav Tuce Ma­ria... ». «Questi siamo noi - dice con fierezza una zingara di mezza età, gonna lunga e treccia nera - , è una preghiera tzigana, è la nostra lingua ».
È un viaggio nell’umanità, questo funerale, tutta e senza eccezioni. Forse è una delle sue feste più belle e incredibilmente ci si sente felici. Solo alla fine, quando la bara è uscita tra uno scroscio di applausi, si resta un po’ lì, confusi, soli: il padrone di casa se n’è andato ma lasciando gli ospiti nelle sue stanze, perché continuino loro a mescere il suo vino migliore.
Disabili, zingari, senza fissa dimora, prostitute e volontari: nessuno ha voluto mancare all’ultimo saluto al fondatore della «Giovanni XXIII». Una ragazza: portava la fede ovunque, nessun luogo era inadatto a lui Molti i bimbi salvati dall’aborto e i figli di coppie rimaste affascinate dal carisma di questo sacerdote dal sorriso contagioso. L’ultimo canto della celebrazione una melodia in lingua gitana.




La pena isolata di Giorgio Vittadini



La famiglia come valore sociale

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