Scola: «Alla fede non arriviamo mai da soli»
DI ANGELO SCOLA
Avvenire, 7.11.2007
Pubblichiamo alcuni brani del nuovo libro del patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola, «Come nasce e come vive una comunità cristiana». I passi sono presi dal secondo capitolo, intitolato «Educare al pensiero di Cristo».
La precedenza della fede è una necessità congenita all’esperienza cristiana. Potremmo anche dire che la fede è l’antefatto che fonda l’esperienza cristiana. Il Papa, nell’omelia di Verona, lo suggerisce con semplicità: « Dalla forza di questo amore, dalla salda fede nella risurrezione di Gesù che fonda la speranza nasce e costantemente si rinnova la nostra testimonianza cristiana...» (...)
Per avere il pensiero di Cristo bisogna dunque riconoscere che la fede poggia su un antefatto. C’è un fatto che sta prima di ogni mia iniziativa personale nel credere. Nessuno si fa cristiano da sé. Nessuno nasce a vita nuova da sé. Questa è la fede della Chiesa di cui parla il Papa così come emerge in maniera sensibile e quotidiana nel luogo in cui tu puoi dire « vieni e vedi », cioè nella comunità cristiana. Per questo una dimensione ineliminabile e permanente della vita cristiana è la Traditio. Scelgo di usare la parola latina per non confonderla con le tradizioni, pure importanti, che possono essere caduche.
C’è una traditio la cui radice è eucaristica. San Paolo la identifica con chiarezza nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: « Ho ricevuto dal Signore ciò che a mia volta vi ho trasmesso » ( 1Cor 11, 23). L’Eucaristia è Gesù che, durante quella cena pasquale, si è consegnato in modo assolutamente inimmaginabile anticipando la Sua morte e resurrezione redentrici a nostro favore e facendo coincidere l’offerta di tutta la Sua Persona con il pane e con il vino trasformati nel Suo Corpo e nel Suo Sangue. Senza soluzione di continuità dalla prima comunità apostolica riunita quella sera nel cenacolo, per la potenza dello Spirito, su su fino alla parrocchia dell’ultimo dei paesetti di montagna d’Italia si potrebbero ricostruire tutti gli anelli della catena fisica che lega la Cena del Giovedì Santo ad ogni Eucaristia. Noi «apparteniamo» a questa Traditio. L’antefatto della fede dice che è sempre necessaria la comunità ecclesiale perché solo essa assicura la « reperibilità del Signore ». Non si arriva da soli alla fede. Anche se il sì è personale, l’incontro nasce sempre da testimoni (Cfr. 1Gv 1) e dentro una comunità.
La fede cristiana non è l’esito di uno slancio religioso soggettivo, della mia religiosità personale; incontra anche questi fattori, ma ha bisogno della Traditio. Se si interrompe la catena dei testimoni ci si perde. Quando si interrompe la catena dei testimoni si rischia di scivolare verso la separatezza.
Qual è allora il metodo o la strada concretamente segnata dall’antefatto della fede? La necessità di vivere in profondità il nucleo genetico in cui la Traditio (l’antefatto) è fisicamente assicurata: l’Eucarestia e i sacramenti nel nesso con la Parola di Dio come genesi di una comunità capillarmente espressa, che « sente » con tutta la Chiesa ( sentire cum Ecclesia), cioè che ripropone in un preciso luogo e tempo quello che hanno vissuto Pietro, Giacomo, Giovanni, gli altri discepoli, e su, su... fino a noi. Non ci sarà educazione al pensiero di Cristo senza questo radicamento nella fede trasmessa e ricevuta.
Il primo elemento per educarsi al pensiero di Cristo è, pertanto, l’immergersi nella Traditio, star dentro la comunità dove Gesù è reperibile per tutti, rispetto alla quale io devo poter dire a chiunque e in qualunque momento: « vieni e vedi ».
La fede è l’origine permanente dell’educazione al pensiero di Cristo. Occorre ora, sia pur molto sinteticamente, descrivere il percorso e la meta di tale educazione. Educare al pensiero di Cristo significa introdurre nell’esperienza consapevole che seguire Cristo è una modalità convincente, bella, gioiosa, di vivere l’esistenza, cioè di vivere il rapporto con tutta la realtà. Questa è la sostanza dell’esperienza umana elementare che l’esperienza cristiana svela nella sua pienezza.
Tutto l’io in tutta la sua singolarità, in tutti i suoi aspetti (fisici, psichici, biologici, volitivi, affettivi, intellettuali, espressivi), nessuno escluso, messo in rapporto con tutta la realtà: il passato, il presente, il futuro (Chi sono? Da dove vengo? Che cosa ci sarà dopo la morte?). Tutto l’io, di fronte a tutta la realtà.
L’esperienza cristiana così intesa attua già nella nostra esistenza il «pensiero di Cristo», il modo in cui Gesù ci ha testimoniato di concepire la vita. Il pensiero di Cristo è l’esperienza che Gesù ha fatto della realtà in tutta la sua totalità. Dal Padre al Padre (« Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre » Gv 16, 28). Egli vive continuamente l’obbedienza al Padre, torna al Padre. Ci dice che siamo venuti dal Padre nostro e ci conduce al Padre.
Questo nucleo costitutivo dell’esperienza cristiana o del pensiero di Cristo mostra che noi abbiamo un criterio unitario, una ipotesi esistenziale, per incontrare la realtà. A partire dal senso cristiano della vita diventiamo capaci di ospitare tutta la realtà. E questo spiega che cosa sia l’educazione alla fede. Essa ha a che fare con la Chiesa come tale perché la Chiesa è un soggetto permanentemente educante. Come dice il passaggio, già citato, di Giovanni che lo riprende dal Profeta: « erunt semper docibiles Dei » ( Gv 6, 45), saranno sempre educabili da Dio.
NELLA PARI DIGNITÀ - COLLABORAZIONE NEI VALORI SPIRITUALI E MORALI
FULVIO SCAGLIONE
Avvenire, 7.11.2007
Abdullah bin Abdulaziz al-Saud. Il nome del sesto re dell’Arabia Saudita è complicato, almeno per le nostre abitudini, ma dovrebbe esserci più familiare. La sua visita a Benedetto XVI, la prima udienza concessa dal Papa a un monarca della casata che fondò lo Stato saudita nel 1932, è quel che si dice, con una formula in questo caso adeguata, un fatto storico.
Quale sia il ruolo dell’Arabia Saudita è presto detto: è cruciale per l’economia mondiale (il petrolio), per gli equilibri politici e per le speranze di pace del Medio Oriente, per il dialogo tra le culture e le fedi. Basti pensare che ha come religione di Stato il wahabismo, una delle forme più severe e rigorose dell’islam, ma ospita anche più di un milione e mezzo di cristiani (su 22 milioni di abitanti), quasi tutti lavoratori stranieri attratti dalla prosperità del Paese.
Nota è anche la biografia del re: sovrano dal 2005, Abdullah bin Abdulaziz è figlio del fondatore della moderna Arabia Saudita. È stato, giovanissimo, sindaco della Mecca e ora, in quanto re, è anche custode delle Sacre Moschee della Mecca e di Medina. Ed è stato lui, nel 2002, a presentare l’iniziativa per la risoluzione del conflitto tra Israele e palestinesi, offrendo a nome dei Paesi arabi la normalizzazione dei rapporti con Israele in cambio del suo ritiro entro i confini del 1967.
Ma quel che forse più conta è che questa visita si realizza in un quadro che appare in pieno movimento. Dal punto di vista politico, la situazione del Medio Oriente (con il neo-espansionismo sciita che ha per motore l’Iran del presidente Ahmadinejad) e la volontà del suo re chiamano l’Arabia Saudita a un più intenso protagonismo internazionale, quindi a maggiori responsabilità. Dal punto di vista religioso, gli interventi di Benedetto XVI, così attento a lanciare ponti verso il mondo islamico e insieme a difendere l’identità e la libertà del cristianesimo e dei cristiani, provocano sommovimenti importanti e offrono occasioni forse insperate.
Poche settimane fa – ricordiamolo ancora una volta – 138 dotti musulmani di 43 Paesi hanno indirizzato al Papa (e ai 'leader delle Chiese cristiane') una lettera per ribadire l’importanza del dialogo tra cristiani e musulmani. Un messaggio che non giunge nuovo a Benedetto XVI, ma che era firmato da autorità importanti nel mondo islamico e che, dunque, potrà far risuonare corde importanti in vaste masse pressate da un lato dalla retorica del radicalismo e dell’estremismo e dall’altro dall’immagine spesso contraddittoria dell’Occidente.
Il rispetto reciproco nella pari dignità diventa così lo scalino indispensabile per qualunque progresso. Ecco perché gli interventi del Pontefice sono particolarmente temuti dai fondamentalisti, che organizzano manifestazioni sanguinose pur di soffocarne l’eco nelle società che, sbagliando, già considerano 'proprie'.
Ma ecco anche perché Benedetto XVI ha potuto ieri ribadire, durante l’udienza con re Abdullah bin Abdulaziz, «il valore della collaborazione tra cristiani, musulmani ed ebrei per la promozione della pace, della giustizia e dei valori spirituali e morali, specialmente a sostegno della famiglia», e rimarcare il valore della «presenza positiva e operosa dei cristiani» che con fatica e impegno collaborano alla prosperità del regno saudita.
Un incontro storico, si diceva. Alla personalità del re e alla sua nota intelligenza, ora, la possibilità di stringere la mano che gli è stata tesa e di rendere storiche anche le sue conseguenze.
Don Benzi, un prete "sociale" che non ha mai perso il contatto con Dio
Se la società ha bisogno dei don Benzi, allora ha anche bisogno del Dio cristiano, perché tutto quello che don Benzi ha fatto lo ha fatto in suo nome…
La società italiana ha bisogno di uomini come don Oreste Benzi? Era solo un prete o anche un cittadino italiano? Credeva solo in Dio o anche nell’uomo? Viveva solo in sagrestia o anche nelle pieghe – e nelle piaghe – della società? La morte di don Oreste Benzi dovrebbe farci riflettere tutti sull’assurdità delle contrapposizione laiciste alla religione cristiana. Non c’è dubbio: la società ha bisogno dei don Benzi e la sua morte lascia un vuoto anche civile, oltre che religioso.
Don Oreste amava gli uomini, amava gli ultimi perché amava Dio. Egli è lì a dimostrare che la fede non aliena e non fa fuggire in un mondo compensatorio e narcotizzante. Sono oltre 200 le case-famiglia della Associazione Giovanni XXIII in Italia. Circa 30 le comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Tutto questo è nato dall’amore di Dio e del prossimo, non da progetti ministeriali o da decisioni degli assessorati regionali. C’è anche un welfare che trae origine dalla preghiera e rappresenta una ricchezza per la società intera non solo in quanto welfare, ma proprio perché trae origine dalla preghiera. Di solito lo spirito laico apprezza l’aspetto sociale della religione: l’aiuto ai poveri, le iniziative del Cottolengo, di don Calabria, di don Benzi. Ben vengano. Ma è meno propenso ad accettarne la scaturigine: la fede, la preghiera, l’inserimento nella vita della chiesa, insomma: la religiosità. Bene la religione, finché fa opere di bene e si limita a queste. Male per il resto, perché sarebbe alienazione. Già nell’Ottocento venivano soppressi gli ordini religiosi contemplativi: a cosa servivano se non a rimbecillire? Mentre venivano lasciati benevolmente in vita quelli a sfondo sociale. Ma don Benzi ci dice che così non è. Che tutta l’azione sociale della Chiesa è inserita nell’intera vita religiosa e da essa non può essere separata. Lui non l’aveva separata. Chi oggi gli fa onore, quindi, non deve separarla. Non si può chiedere al cristianesimo di essere solo un’etica pubblica, la vera laicità lo considera una religione. Se la società ha bisogno dei don Benzi, allora ha anche bisogno del Dio cristiano, perché tutto quello che don Benzi ha fatto lo ha fatto in suo nome.
La laicità ideologica è anche maggiormente disposta a valorizzare i preti sociali senza tonaca. Nell’ambito dei preti sociali essa preferisce quelli che contestano la gerarchia ecclesiale, che sulle questioni morali viaggiano sul filo del rasoio e talvolta superano il segno, che parlano più di problemi di struttura che di coscienza, che scrivono sui giornali della cultura di sinistra. Don Benzi portava ancora la tonaca nera e quella sua papalina da parroco di campagna. Era un vero parroco, il parroco dei poveri e degli abbandonati, obbediente alla Chiesa, senza velleità ideologiche di “cambiare il sistema”. Prendeva il Vangelo sul serio e, soprattutto, prendeva “tutto” il Vangelo sul serio, senza farsene uno proprio. Non era un prete progressista. Per aiutare i giovani a liberarsi dalla droga non aveva bisogno né di andare contro l’insegnamento della Chiesa, né di denunciare le “ricchezze” e il “potere” del Vaticano, né di partecipare a congressi di partito. Non ha mai partecipato alla Assisi-Perugia, partecipava sempre alla Macerata-Loreto. Come tende a separare l’azione sociale dall’ispirazione religiosa, la laicità ideologica tende anche a separare il cristiano, e specialmente il prete, impegnato nel sociale dalla Chiesa. Don Oreste Benzi non si è mai prestato a questo gioco.
Quando un cristiano si impegna in campo sociale e politico lo fa sempre con la totalità della sua esperienza ecclesiale e di fede. Non può svestirsene e scendere sul piano di una presunta laicità neutra. Sarebbe come dire che Cristo, per lui, è solo utile ma non indispensabile. Ma anche una sana laicità non dovrebbe chiedere questo al cristiano. Un cristianesimo solo “sociale” non è più cristianesimo e di un cristianesimo solo orizzontale la società stessa non saprebbe che farsene. Basterebbero i progetti ministeriali e i finanziamenti degli assessorati regionali al welfare.
di Stefano Fontana
L’Occidentale 05 Novembre 2007
Ru 486 da oggi all’esame dell’Agenzia del farmaco Casini (MpV): quante energie per sopprimere la vita
Avvenire, 7.11.2007
ROMA. Secondo quanto riferito da fonti di agenzia sarà all’esame da oggi all’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), la documentazione necessaria per la richiesta di autorizzazione in Italia della pillola abortiva Ru486, con procedura di mutuo riconoscimento. A confermarlo è Catherine Denicourt, responsabile farmaceutico dell’azienda produttrice del medicinale, la «Exelgyn Laboratoires».
Secondo la portavoce dell’industria francese, la data di conclusione della procedura di «via libera» sarà il 19 febbraio 2008.
Dopo quella data la Ru486 dovrebbe essere disponibile in Italia, come alternativa all’aborto chirurgico. La richiesta di commercializzazione sarà valutata dall’Aifa in base alla procedura di mutuo riconoscimento prevista dalle norme europee: essendo la Ru486 già disponibile in altri Paesi dell’Ue non sarà necessario effettuare nuovi studi sull’efficacia del medicinale. E rammarico per questa decisione è venuta dal presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini.
«Non c’è che da esprimere nuovamente il dolore che si prova nel constatare – ha spiegato Casini – che tante energie intellettuali ed economiche sono usate per sopprimere la vita anziché per evitare la morte dei più piccoli e più poveri tra gli esseri umani». E sull’argomento è intervenuto anche il capogruppo dell’Udc alla Camera, Luca Volonté: «Chi sostiene che la Ru486 è sicura e meno traumatica dell’aborto chirurgico mente sapendo di mentire».
La reciprocità tra fede e ragione “alimenta il pieno umanesimo”Afferma il Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
MADRID, mercoledì, 7 novembre 2007 (ZENIT.org).- La simpatia e la reciprocità tra fede e ragione “alimentano il pieno umanesimo”, sostiene il Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, monsignor Giampaolo Crepaldi.
E' quanto ha affermato il presule, questo martedì, nello svolgere una lezione magistrale alla Cattedra Ángel Herrera Oria di Madrid sull’interdisciplinarietà della Dottrina Sociale della Chiesa.
Nel prendere la parola monsignor Crepaldi ha espresso la necessità che vi sia rispetto tra le diverse discipline umane al fine di portare avanti una vera “progettualità al servizio dell’uomo”.
Il Segretario di Giustizia e Pace ha quindi affrontato il tema dei condizionamenti nel contesto dei quali è nato il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, sottolineando “la situazione storica della fine degli anni Novanta”, “la concezione epistemologica del magistero della Chiesa” e “la necessità di rispondere a una crisi culturale e antropologica”.
Circa il primo aspetto, la questione storica, monsignor Crepaldi ha spiegato che dopo il 1989, con la fine degli ultimi condizionamenti della II Guerra Mondiale, è iniziata una nuova era e che i totalitarismi hanno ceduto il passo al “nichilismo distruttore della tecnica”.
Per il presule, il nichilismo, che tende a ridurre l’uomo alla tregua di un prodotto, si verifica fondamentalmente in tre campi dell'etica – l’economia, la bioetica e la globalizzazione –. “La questione antropologica è oggi la questione sociale per eccellenza”, ha osservato.
Monsignor Crepaldi ha poi precisato tre funzioni del Magistero: “annunciare agli uomini la salvezza di Cristo”; “approfondire in modo organico e unitario il contesto della storia” e “il servizio che la Chiesa offre al mondo”.
La questione interdisciplinare, dal canto suo, è in relazione con il dare “risposta alla crisi culturale e antropologica” e che “il Vangelo può penetrare in vari ambiti”.
In questo modo, la Dottrina Sociale della Chiesa può servire da “contesto di orientamento di varie discipline” e da “base per un nuovo progetto di umanesimo”, in cui si uniscano ragione e fede.
SE STUDIARE NONÈPIÙ DI MODA
ROBERTO MUSSAPI
Avvenire, 7.11.2007
Il caso di Diego, il quindicenne del liceo classico di Ischia, vessato dai compagni perché primo della classe è tristemente emblematico: è chiaro che non si sognavano di farlo morire, pur avendolo drammaticamente umiliato, ma non è questo il punto. I compagni di classe lo deridevano perché studiava.
Siamo arrivati a tanto: passare le ore sui libri, per migliorare il proprio spirito, è considerata una perdita di tempo così ridicola da meritare al suo colpevole ogni mortificazione.
Se studi sei scemo.
Ai miei tempi (e non sto parlando del Risorgimento) accadeva il contrario: costantemente quanto sottilmente insegnanti e genitori invitavano i più bravi della classe, i più appassionati e studiosi (categoria alla quale appartenevo) a non insuperbire, a non montarsi la testa, ricordando che quelli meno bravi potevano avere difficoltà pratiche o di carattere ad accostare i libri. E infatti andavamo tutti perfettamente d’accordo, secchioni e somari. Ma era indiscusso che chi studiava era considerato di più, al punto di invitarlo alla modestia. Il professore guadagnava notoriamente molto meno delle persone che come lui si erano laureate: ingegneri, medici, avvocati. Ma i genitori degli studenti, impiegati, artigiani o ingegneri, medici, avvocati, nutrivano un sacro rispetto del professore, depositario di saperi che potevano condizionare la vita stessa, non solo l’istruzione, dei loro figli.
La situazione si è rovesciata, e non certo per caso. Il bambino umiliato e deriso perché studia è la fotografia della televisione, della stampa, della società italiana all’80 per cento. Dove molto spesso recensire un libro è considerata un’idiozia, rispetto alla creazione di una caso, all’invenzione di una polemica. I settimanali che leggevamo un tempo, per le recensioni formative, indipendentemente dalla nostra simpatia per la loro linea politica, sono isole dei famosi da cui è stato esiliato l’uomo che cerca e vuole conoscere. Insultare, forse anche picchiare uno studente che legge e studia è lo sport del nostro tempo: l’inglese serve per il marketing, non per leggere Shakespeare e cominciare a capire qualcosa della vita. Un tempo chi non poteva permettersi di studiare l’inglese né leggere Shakespeare ne soffriva e faceva sì che questo lusso fosse concesso a i suoi figli.
Ora questo non è considerato un lusso, ma una sciocchezza.
Chi scrive queste righe non è un topo di biblioteca: amo il rock, di cui mi perdo pochi concerti, amo lo sport e ne pratico (maldestramente ma con felicità) un po’, mi piace la buona cucina. Ma non è vero quanto scriveva Montale, o scrivi o vivi, o il libro o la vita. I libri senza vita sono pagine vuote, la vita senza libri (o senza il desiderio, il rispetto dei libri da parte di chi non ha la possibilità di apprezzarli) è un’isola dei famosi, uno squallido sepolcro deserto.
07 Novembre 2007 – Foglio - Ru486
7.11.2007 - Il Papa: l’Islam rispetti i cristiani
7.11.2007 - Si può vivere così – Luca Doninelli
mercoledì 7 novembre 2007
Rassegna stampa a cura di Giorgio Razeto
ora: 14:19
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