lunedì 5 novembre 2007

Rassegna stampa a cura di Giorgio Razeto

«La Chiesa viene attaccata perché vince»
Per il cardinale Camillo Ruini non ci sono dubbi: la Chiesa viene contestata perché, dopo una fase in cui sembrava battere in ritirata, adesso mostra segnali di ripresa grazie a una maggiore vitalità del cristianesimo...


Vicario di due Papi, dal '91 al marzo scorso capo dei vescovi italiani, il cardinale Camillo Ruini ha sul tavolo i due libri appena usciti da Piemme che riassumono la sua vicenda: Chiesa contestata e Chiesa del nostro tempo (domani la presentazione a Milano alla Cattolica, con Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Angelo Scola). È la prima intervista da quando ha lasciato la presidenza della Cei.

Sono giorni di riflessioni e di bilanci, che il cardinale prepara tra le carte del suo studio, dove neppure la bomba del '93 è riuscita a seminare il disordine.
«Esplose proprio qui sotto. Io ero in Francia, rientrai subito, arrivai in Laterano mentre ne usciva il Papa. I danni erano seri, ma nello studio tutto era rimasto intatto».

I suoi primi anni alla guida della Conferenza episcopale videro il crollo della Dc. Come li ricorda?
«Tutto accadde in fretta. Nei cinque anni passati alla Cei come segretario, tra l'86 e il gennaio del '91, non intravidi gli sviluppi successivi. Ma già a settembre era cominciato il travaglio, accelerato dalle elezioni del '92, che in breve avrebbe portato alla fine dell'unità politica dei cattolici. Ma anche la nostra risposta fu abbastanza rapida. Nel novembre del '95, al convegno ecclesiastico di Palermo, Giovanni Paolo II approvò la nuova impostazione, il diverso rapporto tra Chiesa e mondo politico: anziché ricercare l'unità perduta, privilegiare i contenuti essenziali, la questione antropologica, sociale, morale».

Quello che appariva un problema si rivelò un'opportunità. Alla Chiesa di Ruini si attribuisce la riconquista quasi gramsciana dell'egemonia cattolica sulla società. E anche, talora, un'ingerenza eccessiva.
«Non abbiamo mai puntato a un'egemonia. Sarebbe stata un'ingenuità. Nel discorso pubblico condotto dai mezzi di comunicazione, in Italia o in qualsiasi altro Paese, la Chiesa non potrebbe trovarsi in posizione egemonica. La Chiesa è una voce in un contesto pluralistico; per quanto cerchi di essere una voce non meno decisa, non meno forte di altre».

Da qui forse l'accusa di ingerenza, di interventismo.
«L'accusa di interventismo è legata all'idea di un confronto tra potere civile e potere ecclesiastico, ognuno con una sua legittimità. Ma viviamo oggi qualcosa di nuovo, che non si può rinchiudere nella dialettica tra Stato e Chiesa. Lo sviluppo scientifico e biotecnologico da una parte, e l'evoluzione del costume dall'altra fanno sì che le questioni etiche, che il pensiero liberale e altre moderne correnti di pensiero riconducevano alla sfera del privato, diventino questioni pubbliche. Ciò ha richiesto alla Chiesa di dare maggior rilievo pubblico alla missione che le è propria, occuparsi dell'ethos; che è inscindibile dalla fede. Non ne rappresenta il centro, il centro della fede è il rapporto con Dio e Gesù; ma il cristianesimo ha a che fare con la vita ».

Il momento più teso è stato il referendum sulla procreazione assistita. Vi è stato rimproverato un atteggiamento politicista: non solo la Chiesa si schierava, ma sceglieva lo strumento dell'astensione.
«Non eravamo di fronte a una questione astratta ma concreta, che riguardava la vita, e richiedeva un intervento efficace. Si trattava di un referendum non proposto e non voluto da noi, per cancellare una legge non certo "cattolica" ma che conteneva aspetti positivi. In passato, nel '74 e nell'81, erano stati proposti referendum da parte dei cattolici, sia pure non da soli. Stavolta il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto.
Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo».

Intende dire che la Chiesa piace ai laici quando perde, come su divorzio e aborto, e disturba quando vince?
«Constato che quando l'impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" come dice lei, tutto fila liscio. Nel caso contrario, la reazione è molto diversa, e riprendono vigore le croniche accuse di interventismo. Ciò che ha specificamente colpito e disturbato è che le nostre proposte abbiano avuto un notevole consenso nell'opinione pubblica».

Esiste in Italia un sentimento anticattolico, una sensibilità ipercritica verso la Chiesa? «Purtroppo sì. Esiste. È legittimo, perché siamo un Paese libero. Non bisogna maggiorarne l'efficacia; ma non si può negarne l'esistenza. C'è una pubblicistica specifica, non inedita ma sempre più intensa, che si concentra in particolare sul vissuto della Chiesa».

È proprio la coerenza della Chiesa con i suoi insegnamenti a essere in questione. Le si rimprovera di essere tutt'altro che povera. «Non credo affatto che la Chiesa sia ricca. Potrà esserlo il singolo ecclesiastico, ma non lo è certo la Chiesa come istituzione. Contrariamente a quel che viene proposto, il rapporto tra i mezzi di cui la Chiesa dispone e le opere che riesce a compiere è incredibilmente favorevole. E questo lo si deve al volontariato. La gran parte delle risorse della Chiesa non vengono dallo Stato ma dai fedeli, sia in forma di offerte sia in forma di militanza. Questo la gente lo percepisce; e vedere una campagna in senso contrario, che proietta un'immagine rovesciata e presenta la Chiesa come un'istituzione che prende anziché dare, suscita interrogativi, diffidenze, timori».

Vi si accusa anche di nascondere le violazioni della morale sessuale, in particolare la pedofilia.
«La fragilità umana esiste nella Chiesa come nel mondo intero. Neppure la Chiesa è fuori da un contesto socioculturale in cui la sessualità è concepita ed esaltata come fine a se stessa. Il contraccolpo è inevitabile, pure tra i credenti. Ci sono state, e temo continuino a esserci, realtà molto dolorose, che colpiscono profondamente quanti amano la Chiesa e in particolare coloro che hanno la responsabilità di governarla. Va anche detto che si può e si deve, sempre rispettando la dignità delle persone, essere attenti e vigili. Non è vero che queste realtà vengano coperte. Sia nella mia esperienza diretta, sia nell'esperienza di tanti altri, la vigilanza c'è sempre stata; anche se è difficile, poiché chi si rende responsabile di tali comportamenti tende a nasconderli. Ma la contestazione verso la Chiesa non si muove solo sul versante del vissuto».

A cosa si riferisce? «La contestazione attacca il centro della fede, il suo cuore. La persona di Gesù Cristo, la sua credibilità storica, il farsi carne del Verbo di Dio. Del resto, una cultura in cui il dolore non ha senso, la sofferenza viene negata, la morte emarginata, non può comprendere il cristianesimo. Che resta pur sempre la religione della croce».

Questa contestazione c'è sempre stata, non crede?
«Certo. Ma oggi la sua violenza polemica è in crescita. E penso sia collegata all'impressione, fondata o infondata che sia, di una maggiore vitalità del cristianesimo».

Fondata, o infondata?
«Quest'estate ho letto un libro di fine anni ‘60, che raccoglie una serie di conferenze radiofoniche nella Germania dell'epoca, con l'intervento di vari credenti — teologi, filosofi, psicologi — e di un intellettuale ateo. Che diceva più o meno questo: "Mi trovo in difficoltà, perché sono abituato a discutere con credenti ben decisi ad affermare che Dio esiste; ma qui mi pare che Dio sparisca dall'orizzonte, che il cristianesimo sia solo un modo di intendere la vita; a queste condizioni, non ho più nulla da obiettare". Parole dal tono involontariamente canzonatorio. Ma anch'io, leggendo quel libro, ho pensato che allora ci fosse la paura di mettere la fede cristiana al centro, con un atteggiamento tanto guardingo da configurare una specie di ritirata. Oggi non è più così. E questo dà nuovo vigore a certe polemiche classiche, che si riaccendono ora che Benedetto XVI sostiene la plausibilità razionale della fede, e dopo che Giovanni Paolo II ha impresso la grande svolta con il suo grido: "Non abbiate paura". Non era uno slogan, ma l'indirizzo di un pontificato. Ricordo che fu accolto con perplessità anche dentro la Chiesa: pareva un motto velleitario. Invece una partita che pareva conclusa, con esito a noi sfavorevole, ora è riaperta. Non tutto il clero l'ha colto; il popolo, forse di più. Mi è capitato di ritrovare un gruppo di miei coetanei, non tutti cattolici praticanti, e di essere da loro non soltanto incoraggiato ma spronato. Quando un'identità forte viene colpita allo scopo di distruggerla, essa reagisce, eccome ».

Alcuni intellettuali, che uno di loro ha definito autoironicamente «atei devoti», guardano alla Chiesa come al caposaldo dei valori che definiscono l'identità occidentale. Come valuta questo fenomeno? «Nella Chiesa si è discusso molto sui non credenti, o non pienamente credenti, che vedono con favore la sua presenza in campo culturale e civile. Dalla Chiesa sono venute risposte varie. Io credo che a Verona Benedetto XVI abbia dato un'indicazione precisa, in termini quanto mai positivi, favorevoli, disponibili. Certo, è impossibile ridurre il cristianesimo a un'eredità culturale; ma è vero che il cristianesimo ha sempre avuto la propensione a farsi generatore di cultura. In una situazione come quella di oggi, in cui vengono messi in discussione i fondamentali antropologici, è più che mai importante la convergenza tra tutti coloro che i fondamentali difendono e valorizzano».

Questo fa sì che la Chiesa sia vista come forza dichiaratamente conservatrice. Al punto da chiedersi se un cattolico possa ancora votare a sinistra.
«Ma queste preoccupazioni per i fondamentali non sono limitate ad alcuni settori dell'arco culturale e politico. Sono condivise da molte parti. Non credo all'equazione tra difesa dei valori e conservatorismo, almeno non nell'accezione negativa del termine, come freno allo sviluppo; perché esiste anche un'accezione positiva. È cosa buona conservare i fondamentali, appunto».

Qual è l'attitudine verso l'Italia dei due Papi di cui lei è stato vicario?
«C'è una differenza, non solo di stile: Benedetto XVI viveva già in Italia da oltre vent'anni; Giovanni Paolo II era sconosciuto a molti, me compreso. Ma c'è una grande somiglianza: entrambi partecipano della profonda convinzione che l'Italia e la Chiesa italiana abbiano un ruolo centrale nel contesto europeo e mondiale. Io stesso, nei due decenni trascorsi nel Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa, ho notato che dall'estero si guarda all'Italia come a un'esperienza che ha qualcosa da dire anche a loro».

La Chiesa italiana è un modello per gli altri episcopati? «La situazione reale è rovesciata rispetto a quella talora raffigurata in Italia: non c'è qui da noi una Chiesa di retroguardia rispetto ad altri Paesi più illuminati, più aperti al futuro; è vero semmai il contrario, sono gli altri a rivolgersi a noi con grande interesse».

Qual è la sua opinione su Padre Pio? «Posso raccontarle qualcosa di personale. Mi sono imbattuto in lui in modo involontario, ma ripetuto. Mio padre era un medico ospedaliero, che fondamentalmente credeva, ma escludeva i miracoli. Una notte di oltre cinquant'anni fa — io ero già seminarista a Roma —, assistette alla guarigione subitanea di un ammalato che giudicava terminale, cui era apparso in sogno il frate. Mio padre fu molto traumatizzato da quell'esperienza. E conosco due suore che ebbero da lui un segno tangibile, una fotografia, che le lasciò attonite. Né mio padre né le suore ne hanno mai parlato, questi due fatti sono rimasti sconosciuti fino a oggi, e chissà quanti altri testimoniano la dimensione umanamente inspiegabile di Padre Pio, che buona parte della cultura contemporanea vorrebbe censurare come magica e non autentica».

Posso farle una domanda sulla sua successione?
«Quella lasciamola al Santo Padre...».

...Intendevo la successione alla guida della Cei. Il cardinal Bagnasco ha ricevuto minacce.
«Il mio successore sta facendo un ottimo lavoro. Ci sono stati segnali preoccupanti, che però non vanno sopravvalutati. In un clima polemico, uno sprovveduto può essere tentato da un gesto scorretto. Ma la possibilità è la stessa di finire travolti da un'auto per strada... ».

Lei è stato il primo presidente della Cei a diventare una figura mediatica, oggetto di entusiasmi e invettive. Questo l'ha infastidita? «No. Non mi ha galvanizzato, non mi ha depresso; non gli ho mai dato molta importanza. È stato un processo graduale, iniziato tardi: sono arrivato a Roma a 55 anni... Per natura tendo a relativizzare. Del resto, la decisione implica l'accettazione del rischio. Anche se non ho purtroppo la meravigliosa capacità, che ho visto in Giovanni Paolo II, di affidarsi totalmente al Signore».

Quale le sembra la temperatura morale dell'Italia? Si è approdati all'alternanza politica, ma la sfiducia è tale che ogni volta il governo viene congedato... «È difficile trovare una sintesi della temperatura morale di un Paese. Ci sono segni positivi e altri negativi. Non nego che la situazione sia difficile, e che la temperatura possa apparire troppo fredda, segno di scarso entusiasmo, o troppo calda, segno di una malattia. L'Italia ha grandi potenzialità e una sostanziale robustezza; ma varie questioni non trovano uno sbocco convincente e duraturo nel tempo. È necessario che la dirigenza politica, come quella economica, sindacale, giornalistica, ecclesiale, guardino di più al medio e al lungo periodo, e non solo all'immediato. È indispensabile affrontare i temi epocali, dalla questione demografica indicata nel 2004 anche da Ciampi all'emergenza educativa di cui parla Benedetto XVI. Non si può guidare un aese guardando solo all'immediato. Chi metterà questi grandi problemi al centro dell'agenda politica, farà il bene dell'Italia, e sarà capito dalla gente».

di Aldo Cazzullo
Corriere della sera, 4 novembre 2007




L'avventura educativa nella società in transizione
LUGANO, sabato, 3 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'intervento pronunciato il 24 ottobre scorso dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, nel 50° anniversario della fondazione del Collegio Pio XII di Lugano.

***
I Un tempo favorevole
Che cosa mi dà, alla fine, voglia di vivere? Perché ne vale la pena? Ed io che sono? Qualcuno mi ama al punto di assicurarmi che questa voglia di vivere non si infrangerà di fronte a nulla, neppure di fronte alla morte? Domande come queste per tutta la modernità, fino alla metà del secolo scorso, vivevano relegate in letteratura o venivano addirittura negate da parte di saperi filosofici come domande non pertinenti, che non dovevano essere nemmeno poste (Comte). Negli ultimi decenni, e con una forte accelerazione dopo il crollo dei muri, tali questioni sono esplose nella vita personale e sociale di noi contemporanei con una forza del tutto inedita, mettendo in moto una ricerca spasmodica di felicità e destando energie di libertà prima impensate. Basti pensare all’ambito delle scienze bio-mediche, economiche, politiche in cui per la prima volta queste domande si sono imposte in maniera diretta ed esplicita, non più mediate dalla filosofia e dalla teologia.
L’uomo post-moderno non intende in alcun modo rinunciare al desiderio in tutta la sua ampiezza (felicità) e all’impiego di tutta la sua libertà per realizzarlo. Le categorie di felicità e di libertà hanno soppiantato in classifica quelle moderne di verità e di ragione.
Ora, Gesù a più riprese fa esplicitamente leva proprio sul desiderio di infinito e sulla libertà come sui due fattori chiave per proporre agli uomini il Suo Vangelo: «Se vuoi essere compiuto» (Mt 19,21) «Sarete liberi davvero» (Gv 8,36).
Questa straordinaria coincidenza tra annuncio cristiano e anelito dell’uomo di oggi vive però dentro un inedito travaglio. Del tutto estranei ad irenismi ingenui, come cristiani siamo ben consapevoli di quanti sentieri interrotti percorrano il desiderio e la libertà dell’uomo post- moderno. Non c’è aspetto della stessa esperienza elementare dell’uomo, legato al suo essere uno di anima-corpo, di uomo-donna e di individuo comunità, che non appaia come “terremotato”. Faccio spesso questo esempio: l’uomo post-moderno, cioè noi, è come un pugile che barcolla dopo aver ricevuto un duro colpo.
Non si deve misconoscere che le nuove istanze cui mi sono riferito sono oggi spesso in balìa della fragilità, della confusione o della contraddittorietà. Tuttavia non sono più censurate o negate.
Per questo a me pare che l’epoca che stiamo vivendo debba essere interpretata più che con la categoria di crisi (che come dice l’etimo della parola si rifà al giudizio e perciò all’ideologia) con quella di travaglio (che descrive uno squilibrio esistenziale). Violente e dolorose sono le contrazioni e le doglie, ma restano attraversate dalla prospettiva gioiosa del parto. Questo mette noi cristiani, e a fortiori noi educatori, davanti ad una enorme responsabilità .
II Educazione ed esperienza integrale«La cosa più importante nell'educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento»[1] così Jacques Maritain, andando al cuore della questione educativa, individua l’inquietante eppure appassionante paradosso di cui ogni vero educatore è ben consapevole. E, subito dopo, ne indica la ragione: «l’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell'uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso»[2].
La categoria di esperienza – assunta nella sua integralità, una volta sgombrato il campo da ogni riduzione psicologico-soggettivistica del termine- è dunque il cardine della proposta educativa. L’esperienza integrale può garantire il processo educativo perché garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà[3].
Una simile impostazione, ad un tempo teoretica e pratica, mette subito in campo la natura inter-personale del processo educativo. Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale. La realtà, con il suo insopprimibile invito ad affermarne il significato, chiama la libertà al rischio (ecco il tratto distintivo di ogni educazione!) del coinvolgimento[4]. Per questo si può parlare del dialogo educativo in termini di avventura, un’impresa rischiosa e affascinante.
Sono così gettate le fondamenta su cui costruire i pilastri portanti di un adeguato metodo educativo. Quest’impostazione “precede” l’analisi del contesto socio-culturale anche se, avendo di mira l’uomo – in ultima analisi il cristiano – nella sua identità di persona libera sempre situata non può mai prescindere dalla sua collocazione storia concreta.
Quali sono i fattori di questo processo educativo?
a) L’innovativa traditio
Imprescindibile punto di partenza perché l’educando possa percorrere la strada dell’integralità dell’esperienza è la cura che le generazioni adulte si prendono delle nuove generazioni
L’immagine più efficace di cosa sia questa cura tra generazioni, questa catena di generazioni, è l’immagine dell’Eneide dove Enea lascia Troia distrutta con Anchise sulle spalle e il figlioletto per mano. L’educazione richiede l’opera della catena di generazioni. Come giustamente è stato affermato, l’educazione domanda tradizione.
Essa consiste, come diceva Blondel, in un luogo di pratica e di esperienza[5], vissuto e proposto in prima persona dall’educatore alla libertà sempre storicamente situata dell’educando. Pertanto la tradizione rettamente intesa è per sua natura aperta a tutte le domande che incombono sul presente. È innovativa. Essa garantisce, come diceva Giovanni Paolo II, la “genealogia” della persona e non solo la sua “biologia”. Garantisce la piena ed autentica esperienza di paternità-figliolanza, imprescindibile condizione per suscitare civiltà[6].
Si capisce allora il peso che nella proposta educativa ha il fattore dell’autorità, termine di cui è bene non dimenticare il significato etimologico più accreditato. Il sostantivo latino auctoritas deriva dal supino del verbo latino augere che significa far crescere. La persona autorevole, infatti, incarna quell’ipotesi esistenziale di lavoro, cioè quel criterio di sperimentazione dei valori che la tradizione mi offre; l’autorità, quando è autentica, è l’espressione efficace della convivenza in cui si origina la mia esistenza. In questo caso l’educando sente l’autorità come profondamente conveniente alla sua persona.
La centralità del fattore autorità nel processo educativo evita la caduta nel razionalismo intellettualistico che ancor oggi, con diverse varianti, inficia la grande maggioranza delle istituzioni educative (scuole, università, ma anche famiglie). Esso si esprime, da una parte, nella pretesa di “attrezzare” l’educando fornendogli una serie sempre più articolata gamma di principi con cui affrontare la realtà (competenze); dall’altra nel considerarlo come una sorta di monade autosufficiente, sciolto da ogni legame. Nozionismo ed abilità tecnico-pratiche da fornire ad un individuo separato: a questo sembra ridursi l’educazione nelle nostre società sviluppate.
Educa, invece, chi documenta in modo concreto e personale all’educando la possibilità di compiersi integralmente vivendo la realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Ma la realtà non è mai veramente affermata, se non è affermata l’esistenza del suo significato. Non è possibile, pertanto, introdurre alla realtà secondo la sua integralità – cioè educare - senza proporre il suo significato. Una proposta chiamata a diventare ipotesi di lavoro per l’educando.
b) L’evento della realtà
Certamente una tale posizione - e passiamo così a descrivere un secondo elemento del processo educativo come luogo di esperienza integrale - implica un giudizio positivo sulla realtà. Il reale, al di là delle tensioni drammatiche che lo attraversano, al di là della sua stessa contingenza, è un bene. L’educazione, per dirla con la celeberrima definizione di Jungmann, è introduzione alla realtà totale («eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit») proprio perché la realtà totale corrisponde – “corrispondenza” è la parola che traduce la cum-venientia dei medioevali - al cuore (alle esigenze costitutive) dell’uomo. E corrisponde perché è per il bene dell’uomo. Quindi è un positivo.
Come si rivela questa percezione della positività del reale? Si rivela nella sua natura di avvenimento. Nel reale il mistero dell’essere si dona. Ogni manifestazione del reale si presenta come evento (dal latino e-venio) che interpella la nostra libertà provocandola ad aderire.
In questo senso l’educazione, che cerca di introdurre l’educando in un’esperienza integrale della realtà, lo conduce progressivamente a coglierne la natura propria, quella cioè di essere segno del mistero, del volto proprio del Mistero. E per i cristiani il volto del Mistero è quello del Padre che ci è stato rivelato da Gesù.
Agostino diceva che, alla fine, l’unica res, cioè l’unica realtà in senso pieno, è il Dio Trino, tutto il resto è segno di questa realtà. Comprendere che la realtà è segno del mistero è questione di vita o di morte in ogni rapporto educativo.
c) Partecipazione
L’integralità dell’esperienza, nel rispetto della natura del reale, non è garantita solo dal fatto che l’educando sia chiamato al paragone con una proposta vivente e personale della tradizione – sempre innovativa - attraverso una figura autorevole. È necessario che l’educando si impegni personalmente con tale proposta.
È importante capire che in questo passaggio non è semplicemente in gioco un metodo educativo più adeguato, o più consono con le legittime aspirazioni di “autonomia” dei giovani. La portata dell’affermazione a questo proposito è molto più profonda. Si tratta di riconoscere la struttura ultima del rapporto tra l’io e la realtà. In forza di tale struttura, se la libertà dell’uomo non si mette in gioco, gli è negato l’accesso alla verità. Infatti, se la verità è l’evento in cui realtà ed io si incontrano e se tale evento si dà sempre e solo nel segno, non esiste, ultimamente, possibilità di conoscere il reale (verità) senza una decisione.
Afferma l’esegeta Schlier, in proposito: «Il senso ultimo e peculiare di un evento, e quindi l’evento stesso nella sua verità, si apre solo e sempre ad una esperienza che s’abbandoni ad esso e in questo abbandono cerchi d’interpretarlo» e aggiunge: «un evento si palesa a chi partecipa all’esperienza di esso».
Così il rischio dell’educazione apre l’educando alla massima creatività.
Tradizione innovativa, autorità vitale, totalità del reale (realtà come evento), verifica personale e partecipata dell’ipotesi educativa: sono questi gli elementi costitutivi di quella che abbiamo definito esperienza integrale.
III Il rapporto educativo come rapporto tra libertàCome si giocano concretamente questi elementi costitutivi dell’esperienza integrale che stanno alla base del processo educativo? Si impone qui il tema del rapporto tra l’educatore e l’educando. Si tratta di un dialogo tra libertà.
a) Il dialogo educativo
Martin Buber, che con Ebner e Rosenzweig è annoverato tra i cosiddetti maestri del pensiero dialogico, afferma che l’autentico dialogo è uno «scambio profondo con il reale inafferrabile»[7]. La definizione di dialogo data da Buber ripropone in modo acuto quanto abbiamo affermato a proposito della realtà come evento. Infatti, il dialogo come ambito educativo costituisce sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone), il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). Scambio che è reso possibile dalla stessa realtà che per il suo carattere di segno non è mai meccanicamente afferrabile. Non esiste vero dialogo senza che si mettano in gioco la libertà dell’educatore e dell’educando nell’incessante paragone con il reale. Se mancasse uno solo di queste tre fattori, il trittico dell’educazione verrebbe inevitabilmente meno. Se mancasse la libertà, integralmente giocata, dell’educatore o dell’educando, il dialogo diventerebbe essenzialmente monologo; se manca l’immersione nella realtà è preclusa la strada all’esperienza.
A questa idea di dialogo è sottesa una ben precisa concezione del rapporto verità-libertà: quella che il cristianesimo ci ha trasmesso, come sintesi di Alessandria, Atene, Gerusalemme e Roma. Quella cui ha fatto riferimento Benedetto XVI a Regensburg, quando ha parlato della necessità di allargare la ragione[8]. Vale la pena richiamarne i tratti fondamentali.
Nella prospettiva giudaica e cristiana la Verità è una verità vivente e personale. Non è un’idea, né il puro frutto di una ricerca teorica.
Inoltre, nella persona e nella vicenda storica del Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per noi, si vede come Gesù Cristo, Verità vivente e personale, senza nulla perdere della sua assolutezza, abbia scelto la strada della libertà umana per rendersi presente nella storia. Più Gesù Cristo-Verità si comunica, più la libertà è chiamata in causa. Più la Verità si propone, più la libertà è provocata. In questo suo “vertiginoso” offrirsi alla libertà Gesù Cristo-Verità giunge fino a farsi da essa crocifiggere. E la Sua vittoria nella Risurrezione è una vittoria gloriosa, pagata a caro prezzo, proprio per salvaguardare l’umana libertà.
Con Gesù Cristo e con il cristianesimo il principio della differenza nell’unità che vive nel mistero della Trinità trapassa, in forza dell’Incarnazione, nella storia e diventa, secondo la legge dell’analogia, principio di comprensione e di valorizzazione di ogni differenza. Questa non viene solo tollerata, ma esaltata, perché trattenuta in unità da quella Verità che giunge fino all’estrema Thule dell’umana esperienza, impedendo che la differenza, anche la più radicale, degeneri in fattore di dissoluzione più o meno violenta.
Questi tre fattori costitutivi del rapporto verità – libertà rivelano tutta la positività del posto dell’altro per l’esperienza dell’io. Sono decisivi, quindi, per ogni rapporto educativo. L’altro, che come afferma Lévinas, «non sopporta il giudizio, immediatamente mi precede, gli debbo obbedienza»[9], si “impone” alla mia vita come presenza benefica. Voglio inserire qui una importante notazione pratica. Se l’educazione è un dialogo di libertà, allora il grande nemico di ogni rapporto educativo è l’artificio. L’opposto dell’educazione è l’artificio. Tutto ciò che è artificioso non educa e questo, nell’epoca del virtuale, rende l’educare più difficile, perché di fronte al reale complesso la tentazione di ricavarsi un reale ridotto, artificiale è consolatoria. Second life, Avatar che fanno spendere soldi e tempo abbreviano, accorciano il reale, adeguano al proprio gusto il reale: sono una illusione, una evasione, un rifiuto del reale e della sua valenza simbolica, della sua provocazione a trovare un linguaggio comune di relazione interpersonale per una fuga verso l’immaginario.
b) Esperienza, libertà e rischio
Questa concezione dell’educazione procede, sulla base di una ben articolata gerarchia dei fattori fin qui richiamati, verso un acme. Mi riferisco alla crescita della libertà dell’educatore e dell’educando.
La mia affermazione potrebbe a prima vista sembrare del tutto ovvia: invece individua l’acme della proposta educativa all’interno del rapporto educativo perché la libertà non è astrattamente intesa come pura sintesi dinamica di intelligenza e volontà, né come somma di decisioni inevitabilmente esigite, ma è vista come esperienza del rischio intrinseco ad ogni atto (di libertà).
In cosa consiste questo rischio educativo? Siccome il mistero si dona sempre nel segno, l’interpretazione del segno è inevitabile, ma è rischiosa «come la navigazione nell’oceano da parte di Ulisse oltre le colonne di Ercole». Il rischio non è irrazionalità, ma insorge a partire da una possibile scissione tra la dimensione “comprensiva” e quella affettiva dell’umana ragione. Le ragioni per riconoscere il vero non mancano, ma restano astratte, non muovono la “volontà”, l’energia di adesione all’essere: uno vede magari tutte le ragioni per compiere un atto ma non riesce a compierlo. Si tratta di un fenomeno estremamente concreto.
Al cuore della libertà che tocca il diapason nell’esperienza educativa, perché in essa è in gioco il significato del vivere in tutta la sua interezza, l’educando fa l’esperienza del rischio. Di primo acchito è stupito dalla positività dell’essere, ma in seconda battuta ha paura che il positivo venga meno. E si blocca.
Su questa base si capisce perché l’esperienza del rischio tocchi anche l’educatore che è chiamato per questo ad auto-esporsi. Educare è comunicare se stessi. Se infatti la tradizione è la donazione dell’ipotesi di verità nella persona dell’educatore, quest’ultimo non potrà che essere un testimone. Introdurre a questo punto la parola testimonianza non è anzitutto far ricorso alla coerenza morale dell’educatore come condizione per un’adeguata educazione, anche se evidentemente non vogliamo sottovalutare la forza persuasiva di questo livello del problema.
L’educatore è testimone perché non può non rischiare in ogni singola azione educativa, esponendosi in prima persona per rispondere all’appello della verità. Così facendo ama l’altro gratuitamente, per se stesso. Non avanza pretese verso di lui, né fa calcolo alcuno sulla sua risposta. Anche a questo livello l’educazione esige il rischio della libertà dell’educatore.
L’esperienza del rischio che attraversa la libertà dell’educatore e dell’educando rivela pertanto che essere educatori è un compito dai tratti drammatici: la tentazione del possesso, quella cioè di non permettere all’educando di essere fino in fondo altro, libero, minaccia continuamente il compito educativo[10]. Accettare il rischio della libertà degli educandi, in effetti, costituisce la prova più radicale nella vita degli educatori: all’altro si vorrebbe risparmiare qualunque dolore, qualunque male[11].
Come questa esperienza del rischio può essere superata e non precipitare la libertà in una frustrazione che la conduca a scetticismo e disperazione? Il fenomeno comunitario è l’humus che, senza sostituirsi alla decisione personale, trasforma l’esperienza del rischio in una vera e propria esaltazione della libertà. Un bimbo si colloca sulla soglia di una stanza buia. Se la madre lo prende per mano il figlio vi si inoltra rasserenato, così vorrebbe essere la Chiesa sensibilmente espressa in comunità visibili ed incontrabili, per ogni uomo ed ogni donna, massimamente per i giovani che ci sono affidati.
Il rischio educativo deve fare i conti con il carattere del travaglio propri dell’uomo post-moderno cui abbiamo fatto cenno all’inizio del nostro percorso.
È chiaro che cinquant’anni fa, quando è stata creata questa Istituzione, si aveva di fronte un ragazzo per cui la tradizione funzionava quasi per osmosi. Oggi ci troviamo di fronte a ragazzi immersi nella realtà virtuale, che non vedono più confini fra il virtuale e il reale, che vivono una situazione antropologica dove l’uomo stesso ha messo mano al suo patrimonio genetico e presumibilmente in pochi anni uomini condizioneranno artificialmente l’individualità biologica di altri uomini. E questo è un cambiamento assolutamente epocale se si pensa che l’uomo sapiens sapiens è venuto alla luce 30.000 anni fa... L’uomo fino a quarant’anni fa era situato dentro una concezione quasi fissa di natura che bloccava a monte tutta una serie di domande relative alla vita e alla morte; adesso invece l’uomo tenta di andare oltre la sua stessa specie per determinare il suo nascere e il suo morire.
Nella sfera sessuale c’è un abbassamento della soglia del pudore fino agli 11/12 anni. Oggi il pudore sfasciato soprattutto nelle ragazze toglie loro capacità di sineidesi (principio del senso comune) e di sinderesi (principio della distinzione del bene e del male). I nostri ragazzini hanno un potenziale di frammentazione dell’io molto più radicale di quello delle generazioni precedenti.
Questi esempi per dire che il reale ha la faccia che ha, non gliela diamo noi o non la inventiamo noi. Certamente noi siamo dentro un reale che in quindici anni ha subito una accelerazione incredibile, destinata a crescere ulteriormente, ma di fronte alla quale è inutile piangere o cercare il colpevole, bisogna star dentro. Come mostrare allora la rilevanza dell’avvenimento di Cristo dentro questa situazione? Ecco il rischio educativo.
IV Verso un modello di scuola autenticamente libera
Oggi nella realtà scolastica in Italia - ma mi pare che il discorso, fatte le debite distinzioni, valga nella sostanza anche per il Canton Ticino - esistono due modelli educativi. Il modello educativo dominante si fonda su questo presupposto pedagogico: ammesso che esista una visione sintetica interpretativa della realtà - così mi pare che ragionino, esplicitamente o implicitamente, i fautori della scuola unica statale - la dovrà guadagnare l’alunno al termine del processo educativo, avendo sentito le diverse posizioni di tutti i professori, in un confronto libero tra le diverse ipotesi interpretative. Sarà lo studente stesso, a suo tempo, se vorrà, a fare la sintesi. Si tratta di un modello che io, pedagogicamente parlando, considero inefficace: avessi un figlio, farei di tutto - magari, come fanno gli americani, gli farei scuola in casa - per non mandarlo in una scuola così. Lo dico con molta chiarezza, non in forza di una prevenzione ideologica, ma solo perché considero questo modello pedagogicamente debole, in ordine all’apprendere bene i saperi. Comunque questo è il modello largamente dominante oggi; e noi lo trattiamo con grande rispetto.
Poi c’è un altro modello, assai minoritario, che è quello generalmente praticato dalle scuole cattoliche. (Diverso sarebbe il discorso per l’università). In queste scuole si fa una chiara proposta sintetica interpretativa del reale e si invita lo studente a verificarla e a paragonarla a 360 gradi, secondo tutte le forme moderne oggi concepite e concepibili, pienamente consapevoli del contesto di società plurale in cui il sistema scolastico è inserito. E che quindi i ragazzi sono chiamati da mille agenti educativi (pensate alla televisione, a Internet, ecc..) ad un continuo confronto tra diverse Weltanschauungen. In questa scelta non c’è nessuna chiusura, o desiderio di creare un bel recinto in cui custodire il ragazzo. C’è invece la convinzione pedagogica che solo davanti ad una chiara proposta interpretativa sintetica del reale si impara adeguatamente. Si studia e si impara meglio. Questo è, dunque, l’altro modello presente nella nostra società. Personalmente non mi riferisco ad un modello confessionale di scuola. Una simile scuola ha certo un suo preciso volto, ma è scuola di tutti e per tutti.
Quando parliamo di libertà di educazione chiediamo che questi due modelli possano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, né più né meno. Non ci interessa fare la battaglia ideologica su quale sia il modello giusto o quello sbagliato. Stiamo dentro questa realtà, chiedendo la parità di condizioni giuridiche ed economiche a parità di verifica da parte degli organi statuali competenti. A condizione cioè che gli organi statuali possano compiere la loro verifica per dare l’accreditamento alle singole scuole a partire da taluni criteri che toccherà a chi governa fissare, e toccherà alla società civile, soprattutto alle famiglie, condividere.
Recentemente ho avuto occasione di leggere una bella relazione di una delle maggiori esperte italiane in materia, la professoressa Luisa Ribolzi[12] dal titolo “Verso una definizione del sistema pubblico di educazione” in cui tra l’altro si sfatano i pregiudizi più diffusi: che lo Stato non può finanziare una scuola che condiziona ideologicamente i suoi utenti, che i soldi per la scuola “privata” depauperano le risorse per la scuola pubblica, che se si introduce il mercato la scuola pubblica morirà, che i genitori di gruppi sociali svantaggiati non sono interessati a compiere scelte formative per i propri figli e non sarebbero comunque in grado di farlo… Queste obiezioni sono affrontate con molta chiarezza, trovando validi argomenti di risposta, anche suffragati da attente rilevazioni e sondaggi. Basti un esempio a proposito di una delle obiezioni più radicate: la professoressa Ribolzi scrive: «nessuna ricerca ha individuato un legame fino ad ora fra chiusura sociale ed utenza di una scuola privata. I pochi lavori oggi disponibili tendono piuttosto a dimostrare che le scuole confessionali [lei le chiama così] hanno un “effetto” di arricchimento culturale complessivo per la comunità». E in nota cita una ricca letteratura.
V Padri perché figli
Concludendo vorrei tornare, ancora una volta, su quello che io reputo un fattore cardine dell’avventura educativa. L’educazione esige la testimonianza di una umanità in atto, cioè esige l’educatore, esige l’adulto.
E l’adulto è educatore a due condizioni: anzitutto che lui, in prima persona, si lasci educare (uno non è padre se non è figlio. Attenzione al tempo del verbo: se non è, non se non è stato).
La seconda condizione è che questa perenne educabilità, questa mia libertà di permanente educando perché io possa essere maestro, sia mobilitata dalla forza educativa di chi lavora con me, di chi interloquisce con me, di chi si accompagna a me nella mia vita e, nel caso del corpo docente in una scuola - poiché la vita è una vocazione fatta di circostanze e rapporti - di coloro che condividono con me lo stesso compito. Non c’è un’altra strada perché l’avventura educativa possa riuscire. Buon lavoro.
[1] Cfr. J. Maritain, Per una filosofia dell'educazione, La Scuola, Brescia 2001, 86.
[2] Ibid., 87.
[3] Cfr. L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino, 1995, 19.
[4] Cfr. A. Scola, Ospitare il reale, PUL-Mursia, Roma 1999.
[5] Cfr. M. Blondel, Storia e dogma, Queriniana, Brescia 1992, 103-137.
[6]Cfr. A. Scola, Genealogia della persona del figlio, in Pontificio Consiglio per la Famiglia, I figli: famiglia e società nel nuovo millennio. Atti del Congresso Teologico-Pastorale Città del Vaticano 11-13 ottobre 2000, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, 95-104.
[7] M. Buber, Dialogo, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 206.
[8] Ho affrontato questa tematica in: A. Scola, Libertà, verità e salvezza, in M. Serretti (a cura di), Unicità e universalità di Gesù Cristo. In dialogo con le religioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 11-16; Id., Quale fondamento? Note introduttive, in «Rivista Internazionale di Teologia e Cultura. Communio» n. 180 (2001) n. 6, 14-28.
[9] E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, 253.
[10] Come spesso avviene, è il poeta che meglio riesce ad esprimere il dramma affascinante ed acuto dell’umana esperienza. Vorrei in questo senso citare Charles Péguy che, cercando di immedesimarsi nella mente e nel cuore di Dio di fronte alla libertà dell’uomo, ha parole di disarmante efficacia: «Come un padre che insegna a suo figlio a nuotare nella corrente del fiume e che è diviso fra due sentimenti./ Perché da un lato se lo sostiene sempre e lo sostiene troppo il bambino si attaccherà e non imparerà mai a nuotare./ Ma anche se non lo sostiene al momento giusto questo bambino berrà un sorso cattivo (...). / Tale è il mistero della libertà dell’uomo, dice Dio, e del mio governo su di lui e sulla sua libertà./ Se lo sostengo troppo, non è più libero. E se non lo sostengo abbastanza, va giù./ Se lo sostengo troppo, espongo la sua libertà, se non lo sostengo abbastanza, espongo la sua salvezza (...) ./ La libertà di questa creatura è il più bel riflesso che c’è nel mondo della libertà del Creatore», Ch. Péguy, Lui è qui. Pagine scelte, BUR, Milano 1997, 359-360.
[11] Non è facile dimenticare, a questo proposito, il racconto di Davide che piange sul cadavere del figlio Assalonne. Dopo aver ricevuto la notizia della morte del figlio traditore «fu scosso da un tremito, salì sul piano di sopra della porta e pianse; diceva in lacrime: “Figlio mio! Assalonne figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio”» (2 Sam 19, 1). Questo pianto per la morte del figlio sciagurato è forse una delle espressioni più belle dell’amore paterno, che non viene meno neppure di fronte all’evidenza del tradimento più orrendo. Non c’è forse anche qui un riflesso della paternità di Dio nei confronti dell’uomo peccatore?
[12] Professore Ordinario di sociologia dell’educazione presso la Facoltà di scienze della formazione dell’Università di Genova. (n.d.c)



NUCLEARE PULITO
Liberi dal petrolio grazie agli ultrasuoni


L’annuncio di due fisici italiani: si può ottenere energia atomica anche da minerali comuni, eliminando il problema delle scorie radioattive...
di ANTONIO SOCCI


È stato detto che la chiave per capire la storia del Novecento è il petrolio (con i gas naturali come il metano). Sotto mille insegne o pretesti è l'oro nero (la sua geopolitica) che ha mosso eserciti e rivoluzioni, condizionato e plasmato il sistema economico e politico mondiale. E pure il nostro modo di vita globale. Anche le sorti dell'ecosistema e il futuro del pianeta dipendono dal petrolio. L'esplosivo problema islamico sarebbe poca cosa senza il petrolio. Del resto le guerre in corso o in incubazione sono tutte nelle aree del petrolio. Il prezzo oggi alle stelle dell'oro nero è una spada di Damocle sull'economia mondiale. Mentre l'energia nucleare (unica valida alternativa) continua ad avere il problema delle scorie radioattive. Come sottrarsi a questa tenaglia? Talora nella storia umana sono state delle scoperte scientifiche a dare la svolta imprevista e a far uscire l'umanità da certi vicoli ciechi. Due fisici italiani, Fabio Cardone e Roberto Mignani, annunciano adesso una scoperta piena di suggestioni e di fascino. Sarà una svolta storica? Di certo potrebbero essere clamorose le sue conseguenze in campo energetico (liberarci dalla tirannia petrolifera e dall'incubo delle scorie nucleari) e perfino in campo medico. Inoltre questa scoperta promette di ampliare la visione della relatività di Einstein e della meccanica quantistica di Bohr, insieme ad altre scoperte sulla gravità e l'elettromagnetismo contenute, con la descrizione scientifica dei loro esperimenti, nel volume dei due fisici intitolato "Deformed spacetime (Geometrizing Interactions in Four and Five Dimensions)" appena pubblicato dalla prestigiosa casa editrice tedesca Springer Verlag. In sostanza Cardone e Mignani annunciano la scoperta di reazioni nucleari prodotte con il suono in elementi senza radioattività: immettendo ultrasuoni in varie soluzioni di acqua e sali di ferro sono stati generati neutroni misurati con rivelatori termodinamici in uso per sistemi di difesa ottenendo il 100 per cento di ripetibilità del fenomeno. Ma chi sono questi scienziati italiani che - in un Paese dove la ricerca è mortificata e il genio abbonda - hanno fatto questa scoperta? Fabio Cardone (che ha diretto gli esperimenti) è un fisico nucleare che ha svolto attività di ricerca presso il Cern di Ginevra e di insegnamento in varie università internazionali, con una montagna di pubblicazioni. Roberto Mignani è docente di fisica teorica all'Università di Roma 3 e anche lui ha al suo attivo un'ampia bibliografia. Gli esperimenti sono stati condotti in Italia dal 2003 presso laboratori militari e civili con la collaborazione dei tecnici militari A. Aracu, A. Bellitto, F. Contalbo, P. Muraglia e dei ricercatori civili G. Cherubini, A. Petrucci, F. Rosetto, G. Spera.
Abbiamo chiesto a Cardone di spiegarci i risultati. «Abbiamo scoperto» ci dice «reazioni nucleari causate dagli ultrasuoni all'interno di elementi naturali privi di radioattività e le abbiamo chiamate reazioni piezonucleari. Queste reazioni permettono di liberare neutroni da elementi naturali inerti grazie all'uso di un generatore meccanico di ultrasuoni alimentato ad energia elettrica. Inoltre queste reazioni liberano direttamente anche energia ed inducono gli elementi a cambiare natura trasmutandoli».
Viene in mente il mito degli antichi alchimisti che già Enrico fermi ricordò...
«Se, invece che ad elementi inerti, queste reazioni vengono applicate a piccole quantità di sostanze radioattive, queste ultime riducono la loro radioattività in tempi diecimila volte più brevi dei tempi naturali di riduzione».
Quindi si può pensare a formidabili applicazioni della scoperta in campo energetico...
«Questa scoperta può trovare ampi campi di applicazione sia realizzando il controllo e la eliminazione di sostanze radioattive indesiderate nella esistente industria nucleare per la produzione di energia, sia nella futura industria nucleare grazie al vantaggio di poter operare con sostanze non radioattive di facile reperimento e approvvigionamento».
Ci faccia capire bene. Saremo in grado di ricavare energia nucleare pulita da minerali comuni e non radioattivi?
«Sì. Questo punto è rilevante poiché permetterebbe alla industria nucleare di rendersi, in prospettiva, ragionevolmente indipendente dall'approvvigionamento di minerali radioattivi con conseguente forte riduzione della dipendenza geopolitica dalle aree di produzione. Un discorso a parte meritano le applicazioni nel campo della difesa e dello studio dei materiali, grazie alla disponibilità di macchine in grado di generare neutroni analoghe alle macchine generatrici di raggi X».
Quali sviluppi scientifici può avere la vostra ricerca?
«La ricerca condotta sulle reazioni piezonucleari ha i suoi sviluppi nell'approfondimento della sintesi dei nuclei atomici (nucleosintesi) e della lesione dei nuclei (nucleolisi), catalizzate dalla pressione degli ultrasuoni in elementi da cui non ci si attendono reazioni nucleari».
Qual è la via nuova che la vostra scoperta apre? «La sintesi dei nuclei è analoga, ma non simile, alla fusione termonucleare che dà l'energia al sole, invece la lesione dei nuclei è analoga alla fissione che produce l'energia nelle centrali nucleari. Sin dal 1944 gli esperimenti di K. Diebner e W. Gerlach in Germania portarono a constatare che la pressione produce reazioni nucleari nelle sostanze radioattive e nelle sostanze contenenti elementi opportuni, come il deuterio dell'acqua pesante. Seguì la realizzazione dei primi ordigni nucleari ibridi a fissione-fusione, che fortunatamente non vennero usati in Europa durante il secondo conflitto mondiale».
Quegli esperimenti ebbero un seguito...
«Sì, continuarono ed hanno subìto una svolta in America dal 1992 con G. Russ e nel 2002 con R. Taleyarkhan i quali applicarono la pressione degli ultrasuoni alle sostanze usate da Diebner e Gerlach. Il naturale sviluppo è ora lo studio della applicazione della pressione ultrasonica a tutti gli elementi noti, tenendo presente che le reazioni piezonucleari non possono avvenire sempre, ma solo quando si supera una opportuna soglia di potenza degli ultrasuoni».
Quindi il suono è la "chiave" per trasformare la materia, ma deve essere calibrato alla perfezione.
«Stabilire questa soglia di potenza degli ultrasuoni per i vari elementi è il traguardo verso una gestione ed un controllo migliore e più sicuro della materia. Inoltre lo studio di questo fenomeno può essere di aiuto per comprendere come nelle stelle si producano gli elementi più pesanti del Ferro. Infatti, se attualmente è molto chiaro come a partire dall'Idrogeno primordiale la natura costruisca tutti gli elementi fino al Ferro, è meno chiaro il modo in cui dal Ferro si procede a costruire elementi sempre più pesanti fino ad arrivare all'Uranio».
Quali altre applicazioni intravede? «Lo studio di come governare le trasmutazioni della materia prodotte da questo fenomeno può portare in medicina a metodi per la eliminazione dei tessuti dannosi nel corpo umano mediante la loro trasformazione».
Si può dunque immaginare un futuro prossimo in cui anziché intervenire chirurgicamente sul corpo si potranno trasformare tessuti nocivi in maniera incruenta. Affascinante. Ma - per tornare al campo energetico - è stato calcolato in quanto tempo si potranno sperimentare queste nuove vie? «Il tempo necessario perché le possibilità di applicazione nel campo energetico della scoperta delle reazioni piezonucleari diventino realtà è stato valutato da responsabili ed amministratori di aziende per l'energia sia in Italia sia in America. Comunque è un problema che resta di pertinenza del C.N.R. il quale è il proprietario dei brevetti di applicazione».
Dunque quanti anni occorreranno? «Riguardo all'attuale industria energetica nucleare, basata sui reattori ad uranio, è stato valutato un periodo da 3 a 5 anni per realizzare il prototipo di un impianto industriale in grado di passare, nella eliminazione di sostanze radioattive, dalle attuali quantità minime degli esperimenti a quantità industriali. Per l'impianto di studio della produzione di neutroni e per quello di produzione di energia, il tempo valutato sarà maggiore, da 5 a 15 anni».
Con quali costi? «I costi per questi impianti sono stati valutati in 100 milioni di dollari ciascuno per un totale di 300 milioni di dollari».
Può sembrare un periodo di attesa lungo...
«Sì, ma si ricordi che passarono 20 anni dalla scoperta di Fermi nel 1934 del metodo per liberare l'energia nucleare dall'uranio, prima di avere un motore a reattore nucleare che fu in grado di spingere il sottomarino Nautilus durante la navigazione sotto il Polo Nord nel 1954. Il tempo è lungo rispetto al desiderio presente di soluzioni immediate ma abbiamo il dovere di compiere questo lavoro che ormai è iniziato».
Lo dobbiamo alle generazioni future... «E anche ai nostri padri...».
Com'è nata la prima idea di questa ricerca?
«La prima idea, che nelle sue premesse dura da circa 20 anni, è nata dal desiderio di ampliare ed estendere la teoria della relatività e la meccanica quantistica. È stata seguita l'analogia di quanto accade in teoria della relatività attorno al sole ove lo spazio non è piatto. Infatti è noto, sin dall'eclisse di sole del 1919, che la luce delle stelle gira attorno al sole curvando come una cometa, e mettendo così in evidenza sensibilmente la realtà che lo spazio attorno al sole non è piatto».
Cosa ne avete dedotto? «Si è pensato che anche attorno al nucleo dell'atomo lo spazio non fosse piatto e questo avrebbe permesso un modo nuovo di vedere le forze nucleari e la loro azione. Viceversa, come in meccanica quantistica esiste per ogni fenomeno una quantità minima e fissata di energia che lo realizza, così si è pensato che esistesse una quantità minima e fissata di energia tale da impedire allo spazio di restare piatto».
Con quale conseguenza pratica?
«La conseguenza di tali idee ha comportato che le nuove reazioni nucleari dovute alla pressione non si realizzano sempre, ma solo quando si supera la quantità di energia fissata dalle forze di natura per impedire allo spazio di restare piatto nel corso della reazione».
In sostanza avete trovato la chiave...
«Sì. La ricerca ha portato quindi a costruire una macchina in grado di generare ultrasuoni con una potenza tale da accedere allo spazio non piatto dei nuclei ed in condizioni tali da produrre reazioni che liberassero i neutroni dei nuclei reagenti».
www.antoniosocci.it

LIBERO 2 novembre 2007



Diritto alle cure: no alle differenze tra adulti e neonati
ROMA, domenica, 4 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

* * *

Nella società occidentale si assiste ad un fenomeno anomalo e drammatico: un forte richiamo ai diritti dell’infanzia… e un continuo calpestarli. Basta pensare a come la televisione e in particolare la pubblicità influenzi in modo subdolo le menti in formazione, o come i ragazzi, un tempo padroni di piazze e vie, oggi siano relegati nelle case. Questa violenza, richiamata da un recente libro dell’inglese Sue Palmer (Toxic Childhood, Orion Eds), è evidente in particolare in come ci si approccia alle cure di chi non si può esprimere.
Il diritto alle cure è certamente avanzato nella società occidentale quando si tratta di bambini che presentano delle patologie per le quali i loro genitori richiedono un trattamento. Il problema si pone quando sembra entrare in gioco un drammatico punto di svolta, in cui alcune legislazioni permettono di scegliere se iniziare o meno (o sospendere) le cure che possono salvare la vita. Infatti c’è chi sostiene che la famiglia di un bambino gravemente malato può chiedere di far sospendere le cure del bambino stesso. Che questo sia un diritto legittimo quando si sia di fronte alla certezza di un’inutilità delle cure, non è neanche da discutere. Il problema si pone quando leggiamo che la sospensione delle cure viene proposta non nell’interesse del bambino, ma nell’interesse di “terzi”, cioè quando la famiglia pensa di non poter sopportare la situazione.

Per esempio, l’australiano Tibballs scrive su questo argomento: “Anche se il miglior interesse è essenzialmente quello del bambino, gli interessi di altri non sono irrilevanti”, e il pediatra indiano Singh: “Per assicurare la giustizia e i costi/benefici, gli stretti principi di miglior interesse del bambino devono essere rimpiazzati dal concetto di beneficenza totale alla famiglia alla società e allo Stato”, così come Michael Gross su Bioethics osserva tra le norme di base per una politica perinatale “un consenso generale al neonaticidio soggetto al parere di un genitore sull’interesse del neonato definito in modo ampio comprendente il danno fisico così come il danno (…) a terzi”.

Dobbiamo star ben attenti a questa possibilità oltremodo pericolosa e ingiusta: nel caso dell’adulto che chiede la sospensione delle cure, se queste sono inutili e dolorose è corretto sospenderle. Ma nessuno penserebbe di sospenderle se fossero onerose o dolorose per i parenti! Purtroppo questo è il caso dei neonati.

Bisogna fare chiarezza e fissare dei punti fermi per evitare la barbarie del ritorno al diritto vitae ac necis del pater familias sui figli:
1. Raramente i genitori hanno il tempo e la freddezza di decidere nell’interesse del neonato, viste le modalità precipitose della maggioranza delle nascite premature
2. Conoscendo che alla nascita la prognosi è sempre incerta, ci si domanda su che base possano fare una scelta consapevole
3. Alla base della richiesta di sospendere le cure si rischia che ci sia non loro inutilità rispetto alla sopravvivenza, ma la prospettiva di una futura disabilità (e il fatto che i disabili che vogliono togliersi la vita sono in percentuale minore dei soggetti non disabili che si suicidano ci fa capire che la disabilità in sé non è un motivo per pensare che la vita non valga la pensa di essere vissuta).

Insomma: è pensabile in Occidente sospendere le cure non nell’interesse del paziente ma dei suoi tutori? Pare di sì, sentendo varie linee-guida sul trattamento dei bambini gravemente malati; e questo ci fa rabbrividire. Anche in Italia si inizia a parlare di questo.

Certamente i primi a farne le spese sono i genitori, su cui fa a ricadere il peso grave, angosciante e carico di turbamenti di una scelta e di una decisione che spetterebbe ad altri (secondo molti autori scientifici, soprattutto francesi) e non su basi emotive ma su certezze cliniche di inutilità delle cure.

Dunque i diritti dei bambini sembrano essere uno scalino più in basso di quelli degli adulti: sembra assurdo, ma è così. Ed esistono tre motivi per cui i neonati sono considerati un gradino più in basso degli altri.

Il primo è che, se li trattiamo da “persone”, per coerenza scientifica bisognerebbe trattar bene anche i “neonati non nati” ovvero i feti, molti dei quali sono più sviluppati di certi piccoli neonati nati prematuramente: un feto può giungere al termine della gravidanza e pesare 4 chili nell’utero materno, mentre un neonato può essere nato prematuramente e pesare 500 grammi! Questo sappiamo bene non essere accettato da chi pretende che vi sia una qualche differenza ontologica tra feto e neonato dalla quale discenderebbero differenti diritti. Sappiamo bene anche che questa differenza è un mero sforzo dialettico che non trova appigli scientifici. Secondo motivo di discriminazione dei neonati è un atavico motivo inconscio: alla loro “scarsa sopravvivenza” facilmente si reagisce deducendone una “scarsa umanità”: non si fa il salto di riconoscere il bambino come una persona finché non è “fuori pericolo”. Questo atteggiamento (comprensibile in un genitore sotto stress, ma certamente non corretto) non è giustificabile per una comunità scientifica moderna che deve agire in base a scienza e non in base alle proprie fobie.
C’è chi pensa che la morte di un neonato sia in fondo un bene per la famiglia che potrà evitare il peso delle cure (quando non si è ancora “affezionata”) o per lo Stato che eviterà un ampliamento della spesa sociale.

Questi tre motivi sono variamente legati fra loro, sono inaccettabili moralmente, e hanno alla base un fenomeno comune: la capacità angosciante di accettare solo ciò che “non dà problemi” negando l’umanità, il dolore o l’esistenza del malato e mettendo a rischio i diritti dell’infanzia in un modo che non trova precedenti. Già: perché un tempo i maltrattamenti all’infanzia erano dovuti a povertà e ignoranza; questa nuova ondata è invece legata al desiderio di “produrre solo figli senza problemi”, per poter noi sperare di vivere “senza problemi”. Ma come pensare che un rapporto che nasce come rapporto di “produzione” possa essere un rapporto umano? E come pensare di esser sereni in una vita fatta su misura in cui l’imprevisto si presenterà, ma in cui ci avranno insegnato solo a fuggire e a censurare?

La politica verso l’infanzia e verso la disabilità (così come verso l’età ultima della vita) è ciò che svela in che tipo di Stato ci troviamo: uno Stato moderno è quello che si fa carico dei problemi, anzi mette chi ha problemi al primo posto nelle spese e nella cultura, che non invita a censurare umanità, vita e dolore. Una riflessione bioetica in questo senso dovrebbe trasformarsi in biopolitica per tutti i governi moderni.



Lombardia, una «rivoluzione» formato famiglia
Avvenire, 2.11.2007
Continua la nostra rassegna delle politiche sul territorio La legge lombarda in sette anni ha attivato le risorse delle associazioni (cresciute del 50 per cento) secondo il principio della sussidiarietà Migliorati i servizi per l’infanzia e per la terza età Gli asili nido sono 1.340, i posti letto nelle case di riposo sono 53.510, oltre 120 mila persone hanno usufruito dei voucher che consentono agli anziani di ricevere cure nelle proprie case

Una norma «rivoluzionaria, che guarda al futuro». Così, il presidente dell’Associazione famiglie numerose, Mario Sberna, definisce la legge regionale lombarda sulla famiglia, la 23/99, la prima ad essere adottata, in Italia, da una Regione a statuto ordinario. Oltre a riconoscere la famiglia, all’articolo 1, quale «soggetto sociale politicamente rilevante», considera «il concepito componente della famiglia». «È una vera rivoluzione – sottolinea Sberna, alla testa di un 'esercito' di quasi 3 mila famiglie, con almeno 4 figli –. In un Paese che ha saputo legalizzare la soppressione dei suoi figli fin dal ventre materno, la Lombardia ha rimesso al centro la famiglia in ogni sua componente e lo ha fatto dichiarando il concepito un essere umano, portatore dunque di diritti e dignità. Così si protegge il futuro della nostra società».
Un secondo aspetto innovativo della legge lombarda è l’aderenza al principio di sussidiarietà, particolare ancora più importante, secondo Sberna, in un contesto istituzionale e politico «che vede da sempre la famiglia come oggetto passivo di interventi, al più assistenziali».
Invece, la Lombardia «riconosce alla famiglia la capacità e la forza di aggregarsi, di tessere reti di solidarietà e mutuo aiuto, di essere, in una parola, soggetto attivo della propria promozione». Una caratteristica evidenziata, con soddisfazione, anche da Ernesto Mainardi, presidente del Forum delle associazioni familiari di Milano e della Lombardia, fondato giusto dieci anni fa, nel 1997, e oggi presente in 9 province su 11 con un centinaio di associazioni affiliate per qualche decina di migliaia di famiglie rappresentate. «Grazie alla Consulta delle associazioni familiari, prevista dall’art. 5 della legge – spiega Mainardi – l’associazionismo familiare è cresciuto velocemente, addirittura del 50% negli ultimi anni. La Consulta, infatti, ha valutato oltre seimila progetti per un valore economico di 70 milioni di euro, privilegiando le iniziative di costruzione di reti primarie di solidarietà familiare, soprattutto per la cura di bambini, adolescenti, anziani e disabili».
In particolare, per la prima infanzia e la terza età, l’assessore regionale alla Famiglia, Giancarlo Abelli, ricorda che, «oltre ai 1000 asili nido già presenti, abbiamo realizzato altri 340 nuovi nidi famiglia e micronidi che ospitano 3500 bambini. Poi sono nati un centinaio di asili nido aziendali». Per la popolazione anziana è stato, quindi, potenziato il numero dei posti letto accreditati nelle case di riposo (Rsa - Residenza sanitario­assistenziale), che oggi sono 53.510, «un numero superiore alla somma di tutti i posti letto a livello nazionale». Infine, Abelli ricorda anche che «più di 120 mila persone, nel 2006, hanno usufruito dei voucher che consentono agli anziani di poter ricevere cure senza lasciare la propria casa e i propri affetti». In vista dei dieci anni della promulgazione, le associazioni familiari chiedono comunque che la legge 23 sia sottoposta a revisione, una sorta di 'tagliando' per mettere mano agli aspetti ancora non pienamente attuati. Tra questi, secondo il presidente del Forum, c’è un «maggior coinvolgimento delle famiglie al tavolo delle decisioni». «È necessario – ribadisce Mainardi – riconvocare il tavolo di consultazione avviato, lo scorso mese di maggio, in vista del Family Day». Una richiesta recepita dall’assessore Abelli: «Confronto e partecipazione sono due punti per noi imprescindibili – sottolinea –. Qualsiasi decisione nasce dal confronto con le parti. Le famiglie e le associazioni delle famiglie stesse sono presenti ai nostri tavoli, penso a quello del Terzo settore e alla Consulta dell’associazionismo familiare».
Un’altra criticità riguarda, invece, il carico fiscale e le tariffe dei servizi locali che pesano sulle famiglie e, come ricorda il presidente delle Famiglie numerose Sberna, non tengono conto del cosiddetto 'quoziente familiare', di «quante persone stanno dietro un contatore». «Per le tariffe – spiega Sberna – si dovrebbe introdurre una quota di esenzione moltiplicata per il numero delle persone che compongono la famiglia. E questo dovrebbe valere per i metri cubi di acqua potabile consumati, per i kilowattora di energia elettrica, per il gas, per il Servizio sanitario e così via. Invece, all’addizionale regionale Irpef della Regione Lombardia non interessa nulla se colpisce la busta paga di un single o di un padre di cinque figli: in entrambi i casi la percentuale è identica. E questo non va bene».
Pagare le tasse a seconda del numero dei figli, è una proposta che trova l’assessore Abelli «favorevolissimo», perché «fissare i parametri in base al numero familiare è un fatto di equità fiscale». «Certo – conclude – con il federalismo fiscale sarebbe la Regione a individuare i parametri e a stabilire i criteri. Oggi invece dobbiamo subire le minuzie che ci arrivano dallo Stato, nonostante la battaglia che abbiamo avviato per la riforma fiscale. In più ricordo che Formigoni ha proposto l’istituzione del quoziente familiare su base volontaria in modo che l’imponibile possa essere determinato in base al numero delle persone che compongono la famiglia».
Paolo Ferrario


Caffarra: il dramma di Bologna




La memoria dei defunti – Davide Rondoni



Lo scienziato Piattelli attacca l'evoluzionismo.
Di Rassegna Stampa (del 04/11/2007) - Corriere della Sera

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